URBINO nel Cinquecento

La fama di Urbino nel campo della maiolica inizia nel XVI secolo, ed è particolarmente legata alla produzione istoriata; resta poco conosciuta la produzione precedente, come pure quella di uso comune. Probabilmente è stato privilegiato negli studi un aspetto, e non il fenomeno nella sua completezza[1]. D’altra parte è indubbio che la produzione istoriata ebbe, a Urbino, un’importanza  e uno spazio superiori alla norma, legati forse al costituirsi, dopo il  rientro definitivo di Francesco Maria della Rovere nel 1521, di una corte raffinata con parentele importanti. Di conseguenza non mancarono ai maiolicari locali committenze adeguate: credenze e pezzi da pompa erano richiesti in gran numero, di varia qualità e prezzo, dipinti a paesi, fabuli et historie[2].

Prosperarono  i ceramisti famosi: Nicola da Urbino, Guido Durantino e Guido di Merlino sono i nomi di maggior spicco fra quanti disponevano di una propria bottega. Vi era poi tutta una folla di fornaciai, tornitori e decoratori più o meno validi, che prestavano la loro opera a contratto, specie in occasione di grosse commissioni particolarmente impegnative. A questa categoria appartenne probabilmente Francesco Xanto Avelli, autore di istoriati, che pare  aver sempre lavorato presso altri.


[1] E’ particolarmente meritevole, a questo proposito, la pubblicazione di una serie di frammenti reperito nel corso dei lavori di consolidamento dell’ala settentrionale del Cortile d’Onore del Palazzo Ducale di Urbino, nelle volte del Salone del Trono (Giannatiempo Lopez 1997). Vi è testimoniata tutta una produzione non istoriata, con motivi decorativi  tardo gotici (fiamme, raggere etc) e rinascimentali (festoni, trofei, motivi alla porcellana), ma anche ornati “a paesi” su smalto azzurrato. 

[2] Archivio Gonzaga, E.XXVI,3, busta 1105.  Da Vitaletti  1912, p. 7 nota 2.  Anche in Lettere inedite di artisti del secolo XV cavate dall'Archivio Gonzaga dal Canonico Willelmo Braghirolli, Mantova, Eredi Segna, 1878 p. 25.

 


Nicola è considerato il più abile fra i pittori di maioliche. Identificato un tempo, erroneamente, con Nicolò Pellipario Schippe di Casteldurante, padre di Guido Durantino[1], nel 1985 è stato possibile risalire alla sua vera identità grazie ad indagini effettuate negli archivi di Urbino[2]. Risulta dunque che il suo nome era Nicola di Gabriele Sbraghe, urbinate, menzionato nei documenti dal 1520   con l’appellativo di “figulo o vasaio”. E’ possibile seguire  numerose transazioni che lo riguardano, come ad esempio l’acquisto di una casa dal collega Guido Durantino, poi restituita. Morì alla fine del 1537 o agli inizi del ‘38, e la vedova ne affittò la bottega a Vincenzo, figlio di Giorgio Andreoli da Gubbio.

Nicola non fu solo padrone di bottega, ma pittore egli stesso: nel 1528 eseguì infatti e firmò un piatto col Martirio di Santa Cecilia presso Guido Durantino[3]. Altri quattro esemplari recano la sua firma, per esteso o in monogramma: un piatto nel museo dell’Ermitage di San Pietroburgo con un imperatore in trono (1521)[4], un frammento con il “Parnaso” al Louvre[5], un piatto nella chiesa di Santo Stefano a Novellara con Storie di Giuseppe[6],  un piatto nel British Museum di Londra con “gli ateniesi che sacrificano alla dea Diana”[7]. Gli vengono poi attribuiti, per affinità stilistica con i pezzi firmati, alcuni grandi servizi, fra cui  quello denominato Correr, dal museo Civico di Venezia, dove si trova  la maggior parte di ciò che è rimasto. Il servizio è di fattura eccezionale, anche nell’ambito della produzione di Nicola, sempre di altissima qualità, e può essere considerato un vero capolavoro. E’ generalmente datato attorno al 1520, e vi sono rappresentati alcuni episodi mitici legati alla musica, come le vicende di Orfeo e la gara fra Apollo e Marsia. La gamma dei colori si basa su un’armonia di tonalità fredde, a base di blu, gialli, verdi e violetti, che ricorda un poco quella di un altro grande della maiolica, il cosiddetto Maestro della Resurrezione. Generalmente, invece, Nicola profila e ombreggia le sue figure con il bruno di manganese, ed usa colori  brillanti, con i toni del blu, del verde e dell’ arancio ben equilibrati fra loro.  L’impatto visivo è ben diverso, ma può darsi che il Correr preceda cronologicamente le altre opere, e che questo giustifichi scelte cromatiche così particolari. Nicola eseguì corredi anche per Isabella Este- Gonzaga marchesa di Mantova, suocera del duca di Urbino (1525 ?)[8]e per altre nobili famiglie: i Calini di Brescia, ad esempio[9], e i Valenti-Gambara. Gli appartiene, almeno in parte, un servizio recante lo stemma di alleanza di Federico Gonzaga e Margherita Paleologo, databile all’incirca al 1531-’33[10].

Nelle opere riferibili agli anni 1520-’30 l’artista si distingue per  finezza di esecuzione e grande comprensione spaziale.  L’inquadratura è prospettica, il segno graficamente accurato, il gusto classicheggiante e aggiornato. Non mancano casi in cui, ispirandosi per la composizione a una stampa rigida e arcaizzante, è in grado di interpretarla secondo canoni classicheggianti, mostrando di aver bene assimilato la lezione di Raffaello[11]. Talvolta l’ispirazione proviene da disegni[12], talaltra direttamente da affreschi [13]. Caratteristico è il modo in cui sono delineate le figure: visi a seme di melone con nasi alla greca, capelli dalle ciocche ben delineate, membra con i muscoli evidenziati e giunture strette, rese al ginocchio da tre cerchietti. Gli alberi appaiono sinuosi, incurvati, e le nuvole assumono spesso una forma a chiocciola. All’orizzonte si profilano montagne davanti alle quali sono un braccio di mare e una serie di edifici. Queste caratteristiche, verso gli anni quaranta, diventeranno pressoché generali nella produzione urbinate; Nicola contribuì quindi al formarsi di una repertorio comune di consuetudini rappresentative, che coinvolse a poco a poco la quasi totalità delle botteghe. Nella fase più tarda però egli appare diverso, fino a  generare qualche perplessità. Se ancora in opere datate al 1531 il suo stile risalta per la precisione grafica un po’ fredda[14], in perfetta sintonia con le opere precedenti, nel servizio Gonzaga–Paleologo (1531-’40[15]) si nota un atteggiamento diverso: il disegno è più corsivo, i colori più accesi, con abbondanza di toni ruggine per il modellato degli incarnati. Si ritiene che questo possa essere giustificato con un’evoluzione volta a sostituire l’iniziale raffinatezza con un tocco più acceso ed espressivo.


[1] ma già nel 1968 il Wallen aveva messo in guardia contro questa identificazione troppo facilmente accettata. 

[2] Negroni 1985, p.13-20. Le conclusioni del Negroni ci sembrano molto ben suffragate, e conducono a una identificazione sicura. 

[3]  Conti, 1971 n.16

[4] Inv. F 363, Kube 1976 p.58.

[5] Inv. OA 1244, in Giacomotti 1974 n.829

[6] Liverani F. 1991 fig.2,3 p.49.

[7] Inv. MLA 1855, 3-15, 23, in   Wilson  1987,  n.63 p.50

[8]Mallet 1981, p. 39-40. Il servizio era stato probabilmente commissionato dalla figlia di Isabella, Eleonora, che era duchessa di Urbino, ed è menzionato in una sua lettera come “cosa da villa” (Palvarini Gobio Casali 1981, p.44-45) 

[9] Molti esemplari del Calini si trovano nel Royal Scottish Museum di Edimburgo (inv. 1897-327 b-e, in Curnow 1992 nn. 63-66. Un piatto con lo stemma Valenti Gambara si trova a Milano, Castello Sforzesco (inv. M 131, in Biscontini Ugolini-Petruzzellis Scherer 1992 n.7 p.44)

[10] V. la scheda in Mallet 1981 p.198.

[11] Massing 1991, p.150. 

[12]   Mallet  2002, pp.89-99. 

[13] Cfr. ad esempio un grande piatto della collezione Lehman del Metropolitan Museum of Art di New York (Inv. 1975.1.1004, Rasmussen 1989 n.68), che deriva da un affresco del soffitto nella sala dell’Elezione romana (o degli Amorini) della Villa Imperiale di Pesaro (Cioci 2002, pp.67-88) e tre piatti ispirati direttamente agli affreschi delle Logge Vaticane (Hockemeyer, collezione, 1998 p.138-9 e 238-242; Wilson 2000,scheda n.193; Casati Migliorini 2003) 

[14] Cfr. ad esempio il piatto in collezione privata con scena del mito di Psiche, lustrato, in  Fiocco- Gherardi 1998 fig. 10 p. 33.

[15] Lo stemma allude al matrimonio fra il duca di Mantova Federico II e Margherita, figlia del marchese di Monferrato Guglielmo Paleologo, avvenuto nel 1531. Il servizio fu commissionato in occasione delle nozze o in epoca successiva, prima comunque della morte di Federico, avvenuta nel 1540.

 


Alla realizzazione del servizio Gonzaga Paleologo prese parte anche  Francesco Xanto Avelli, il più noto fra i decoratori di professione[1].  Nativo di Rovigo, nel Veneto, la sua attività si svolge però nel ducato di Urbino, ed appare interamente dedicata all’istoriato. Un documento del 1530 ci rivela che il suo vero nome era Santi o Santini. In seguito egli lo rese più aulico, modificandolo in Xanto, come uno dei fiumi che scorrevano presso Troia, e aggiungendovi Avelli. Nella documentazione d’archivio e nelle scritte apposte sulla maiolica non viene mai menzionata una sua bottega, anche se sono frequentissimi gli esemplari recanti la sua firma. Inoltre, nel 1541, sul retro di un piatto illustrato con un’impresa di Carlo V è specificato che è stato bensì eseguito dall’Avelli, ma nella bottega di Francesco di Silvano[2]. Si può quindi pensare che egli abbia sempre sfruttato  la sua eccezionale abilità impiegandosi a contratto, e passando da un datore di lavoro all’altro. A partire circa dal 1530 l’Avelli risiede stabilmente in Urbino, dove appare legato al duca Francesco Maria della Rovere, in onore del quale scrive anche un’opera in versi, Il Rovere Vittorioso. Le ultime notizie che lo riguardano sono del 1542[3]; in seguito non viene più menzionato, e scompare dal panorama della maiolica urbinate. 

Gli anni che precedono il 1530 sono stati oggetto di innumerevoli discussioni[4], poiché Francesco non usa ancora firmare, come farà in seguito, con il proprio nome per esteso, e questo rendere più difficile riconoscerne l’ opera. Sulla base di somiglianze stilistiche, dovrebbero appartenergli numerosi istoriati siglati con uno svolazzo finale che somiglia alla lettera ypsilon o alla phi greca. Questo segno è stato variamente interpretato, o come uno svolazzo qualunque, una specie di riempitivo [5], o una abbreviazione per etcetera[6].    In seguito ricompare qualche volta accanto alla firma dell’Avelli[7], e dovrebbe quindi trattarsi di un suo contrassegno.  

Dove lavorava l’Avelli prima di stabilirsi a Urbino nel 1530?  Probabilmente all’interno del Ducato, e qui deve aver fatto il suo apprendistato, poiché dipinge e colora come i pittori di maioliche urbinati e durantini. In questa fase precoce è possibile che egli si spostasse da un centro all’altro, e che attorno al 1528-29 frequentasse la bottega di Giorgio Andreoli a Gubbio. Fra tutti i pittori di istoriati, infatti, Francesco è quello che con più continuità utilizza il lustro di tipo eugubino, e questo sembra indicare una consuetudine e dei rapporti amichevoli con gli Andreoli, che permangono anche quando ormai il pittore ha fatto di Urbino la propria residenza. Nel 1531, su alcuni suoi piatti istoriati compare la scritta in Urbino, e tuttavia recano il lustro di Gubbio. In proposito, il Mallet segnalò per primo un fatto curioso: sugli esemplari firmati  “in Urbino” dal 1531 al ’33 i racemi a lustro sul retro sembrano voler coprire intenzionalmente sia  il nome dell’ Avelli che quello della città, come se Maestro Giorgio, che in precedenza era stato l’unico a siglare le opere dell’Avelli, fosse irritato da questa manifestazione di orgoglio e indipendenza[8]. In seguito il fenomeno cessa, e il lustro non si sovrappone più alla scritta in blu. Chi applicava il lustro sulle opere urbinati dell’Avelli? C’è da credere, come avveniva un tempo, che il vasellame venisse trasportato a Gubbio presso la bottega Andreoli per venirvi lustrato? Noi riteniamo che nella stessa Urbino vi fosse una specie di succursale, gestita da uno dei figli di Maestro Giorgio, Vincenzo. A riprova, a partire dal 1532 quasi tutte le opere a lustro dell’Avelli sono contrassegnate dalla lettera N, che si ritiene il monogramma di Vincenzo Andreoli. Questi nel 1538 affittò la bottega di Nicola da Urbino, morto da poco, e il 13 marzo 1544 acquisì la cittadinanza urbinate[9]. Ancora nel 1546 troviamo tracce di Vincenzo a Urbino, quale testimone il 22 febbraio di un atto notarile, nel quale viene definito abitante di Urbino (incola Urbini). Il 2 febbraio dell’anno successivo però egli appare definitivamente rientrato a Gubbio, e regola formalmente i rapporti col fratello nella gestione della bottega paterna[10]. In coincidenza, il lustro sembra esaurirsi lentamente a Urbino.  

Menzionato nei documenti fra il 1523 e il 1564, Guido di Merlino fu anch’egli un importante maiolicaro, specializzato in istoriati con soggetti tratti dalla mitologia classica: almeno tredici opere menzionano la sua bottega[11], situata nel quartiere di San Polo, a sud del Palazzo Ducale, che vendette al nipote Maestro Baldo di Simone nel 1555[12]. I pittori impiegati presso di lui furono almeno quattro, fra cui  Francesco di Berardino, originario di Casteldurante .  Questi lavorò soprattutto fra il 1544 e il 45, firmandosi Francesco Durantino. Dal 1547 fino alla fine del 1556 gestì una fornace a Montebagnolo, presso Perugia, il cui proprietario Matteo Lang sembra facesse affari con gli incaricati papali per la costruzione della Rocca Paolina. Di questa trasferta umbra rimangono alcuni grandi rinfrescatoi ovali e una coppa su basso piede con Apollo che  scortica Marsia nel British Museum di Londra[13]. In seguito Francesco non pare tornasse a Urbino: nel 1566 un Francesco Di Bernardino di Casteldurante si trova a Roma, menzionato in un documento quale vascellarius seu fornaciarius et fabricator vasorum assieme al figlio Giovanni Antonio[14]. La sua attività continuò dunque a Roma, dove nel 1575 vendette la bottega ad Angelo Picchi, anch’egli originario di Casteldurante. 

Dalla stessa piccola città proveniva un  altro grande  protagonista della maiolica urbinate, Guido Durantino. Vicino e collega di Nicola, e con lui spesso in rapporti di affari[15], era figlio del durantino Nicolò “Pellipario” Schippe, di mestiere conciatore e venditore di pelli.  Già nel 1516 Guido è però residente a Urbino, e nel 1519 vi è documentata la sua promessa di matrimonio. Qui si svolse  per intero la sua lunga carriera, fino alla morte avvenuta nel 1576.  A differenza di Nicola, non è possibile  stabilire se Guido dipingesse personalmente, o se si limitasse a un’attività imprenditoriale.  Di sicuro assumeva decoratori a seconda delle necessità, né è stata individuata alcuna fisionomia pittorica costante nell’ambito della sua bottega, come dovrebbe se lui stesso avesse dipinto. Si susseguono invece mani diverse, per periodi limitati.


[1] Francesco firmò un piatto con Alessandro e Rossana datato 1533, ornato con l’araldica Gonzaga-Paleologo, attualmente nel Victoria and Albert Museum di Londra (inv. 1748-1855).

[2] Si tratta di Carlo V alla presa di Goletta, con la scritta sul retro In Urbino nella / boteg di Francesco / de Siluano / .X., v. Marryat 1868 pp. 63-64, e Mallet 1984 p.399, tav.CXI, CXII

[3] Scatassa   1904 p. 199.

[4] In particolare, v. Rackham 1957 p.99-113, Mallet 1971 p.260-65,  id. 1976 p.4-19

[5] Mallet 1988 p.67-69

[6] Rasmussen 1989 p.130

[7] Cfr. ad esempio due piatti del Castello Sforzesco di Milano, inv. M 142 e M 226, firmati prima dell’argomento, che si conclude con nota y, mentre un terzo, inv. M 217,  termina con  historia y ( Petruzzellis Scherer 1980 p.321-370, fig. 8-9, 11-12, 19-20).

[8] Mallet 1988, p.68-69

[9] Negroni 1985 p.20

[10]Mazzatinti 1898 p.61. I successivi documenti di archivio relativi alla sua attività lo indicano sempre residente a Gubbio. Negli anni 1555-58 si parla di lui nel manoscritto del  Piccolpasso, a carte 46v del II libro, dove viene descritta la tecnica del lustro: questo ho veduto in ugubio in casa di un m° Cencio di detto luogo.

[11] Wilson 2004

[12] Gardelli 1999 p.233. L’autrice riferisce una notizia datale oralmente da don Franco Negroni. Contemporaneamente, riproducendolo fotograficamente, consente di rettificare in 1538 la data 1558 riportata dal Pungileoni (1879 p.336 nota 27) a proposito di un contratto nel quale una famiglia palermitana commissiona vasellame a Guido di Merlino, finora considerato come l’ultima testimonianza dell’attività del ceramista.   

[13] Per tutto quanto riguarda Francesco Durantino, v. Wilson 2004 b

[14] Grigioni 1946, pp.26-7; Gardelli 1999 p.275-7

[15] Negroni 1985 p.13,14

 


Attorno al 1535 è attivo, ad esempio, un decoratore che collabora ai servizi per due illustri committenti francesi: il Connestabile Anne de Montmorency e il Cancelliere Cardinale Antoine Duprat. Egli sembra proseguire la sua attività fin verso il 1540, assimilando elementi tipici della maniera di Nicola, specie nelle architetture e nei paesaggi, ma sviluppandoli con minor efficacia e con un tratto più debole e corsivo. A lui si deve probabilmente anche parte del corredo per il vescovo di Urbino Giacomo Nordi.     

Attorno alla metà del secolo, per motivi che non conosciamo, Guido assunse il cognome “Fontana”, che trasmise poi ai discendenti. In questa seconda fase acquistò ancora più prestigio nel contesto urbinate, e gli vennero affidati importanti incarichi. Il famoso elogio dei vasi dipinti, fatto dal Vasari nella Vita di Battista Franco[1], è probabile si riferisca alla sua produzione. Battista Franco fornì disegni ai maiolicari urbinati per due credenze, destinate all’imperatore Carlo V e al cardinale Farnese, fratello della duchessa di Urbino, e nessuna bottega era più qualificata allo scopo di quella dei Fontana.


[1] Giorgio Vasari, Le Vite, 1568 (seconda edizione)p. 590 : “. le pitture che in essi (vasi) furono fatte non sarebbono state migliori quando fussero state fatte a olio da eccellentissimi maestri”

 


Qui fu anche eseguito, secondo l’opinione comune, anche il servizio che Guidubaldo II (duca di Urbino dal 1538 al 1574) donò al frate Andrea da Volterra[1], di cui sono noti 16 esemplari con storie dell’antico Testamento e leggende classiche. Si tratta dunque di una commissione ducale di grande rilievo. Guidubaldo commissionò anche, fra il 1560 e il 1562, il cosiddetto “Servizio spagnolo”, destinato in dono a Filippo II e illustrato con scene della vita di Giulio Cesare, i cui disegni furono eseguiti da Taddeo e Federico Zuccari[2]. Taddeo era stato chiamato da Roma nella nativa Urbino per dipingere il ritratto della figlia del duca, Virginia, in occasione del suo matrimonio con Federico Borromeo. Prima di ripartire, fornì i disegni destinati alle maioliche[3]. La data di questo episodio può essere determinata con una certa precisione, poiché il matrimonio che lo originò ebbe luogo nel 1560[4]. Una lettera manoscritta di Paolo Mario, inviata da Urbino a un emissario del duca il 17 dicembre 1562, riferisce che il servizio era stato completato e ottimamente riuscito[5], che il soggetto erano le storie della vita di Cesare e che le scritte da apporvi erano state dettate da Muzio Giustino Politano, segretario del duca. Era talmente vasto da richiedere, per l’imballaggio ben 10 casse. Alcuni dei disegni degli Zuccari sono stati identificati: in particolare, uno si trova nella collezione del conte di Leicester a Holkham Hall, con un gruppo di soldati romani che distruggono un ponte, ed è riprodotto su un bacile  del Victoria and Albert di Londra che probabilmente faceva parte del famoso servizio[6].


[1] Wilson 2002

[2] Per una sintesi sull’argomento, v. Vossilla 2004

[3] Vasari 1568 p.693

[4] Dennistoun 1909 III, p.125

[5] Gere 1963 p.306. Vi allude il Milanesi in un nota a pie pagina, ne discute il Fortnum 1873 p. 337. Paolo Mario, scrivendo da Urbino a un ministro del duca di Urbino sulla credenza mandata a Filippo II da Guidobaldo II, parla della cura con cui fu fatto, “che se si fosse fatta di gioie”, e dice che i disegni per essa, con la storia di Giulio Cesare, erano stati portati da Roma. Dice anche che era stato fatto alla perfezione, così che uno avrebbe potuto studiare su di esso le arti della scultura, pittura miniatura, altrettanto bene che la storia di Cesare. Dichiara inoltre che Muzio Giustino Politano, segretario di Sua Eccellenza, aveva dettato i versi e le citazioni che sono sul retro dei pezzi, i quali tutti furono imballati in dieci arche, e sarebbero stati mandati sotto la cura un un Maestro di grande esperienza. Questo Maestro era forse Raffaello Ciarla, come riferisce il Pungileoni.  Questa lettera manoscritta è conservata negli archivi di Firenze, il Fortnum aggiunge un riferimento all’Archivio Centrale di Firenze, Carte di Urbino, Div. G. Filza, 254.

[6] Gere 1963 fig. 14

 

All’epoca del “servizio spagnolo” cominciano a svilupparsi nella ceramica urbinate le delicate grottesche su fondo bianco, che spesso fanno da cornice agli istoriati. Molte fra quelle eseguite dai Fontana nel corso degli anni '60 derivano dall'incisione orleanese del 1550 delle Petìtes Grotesques di Jacques Androuet I Ducerceau, architetto disegnatore e incisore francese, che ha fornito loro degli utili modelli[1].



[1] Poke 2001 

 


Fra i figli di Guido Fontana, quello più dotato per la maiolica sembra essere stato Orazio, che lavorò con il padre fino al 1565, poi si mise per conto proprio. Tradizionalmente gli sono attribuite le opere più raffinate: egli fu prescelto quale esecutore dall’Arcivescovo di Urbino per una credenza che il suo protettore, il cardinale Giulio della Rovere, voleva inviare al cardinale Alessandro Farnese[1]. Agli inizi del ‘600 Bernardino Baldi, nell’encomio che indirizzò a Francesco Maria della Rovere II[2], lo definì “nobilissimo” nell’arte ceramica, e così apprezzato dal suo duca che questi inviava le credenze fatte da lui, come cosa rara, in dono a gran signori, fra cui il re di Spagna e l’imperatore.

L’attività di Orazio non si limitò alla sola Urbino: negli anni 1564-65 egli si trovava infatti a Torino presso il Duca di Savoia, occupato a dirigere i vasai al suo servizio[3]. Morì nel 1571, e il padre dovette modificare di conseguenza il testamento. Guido a sua volta morì verso il 1576. 

Dei Fontana rimase Flaminio[4], figlio di Nicola di Guido, che ereditò la bottega dello zio Orazio e proseguì un tipo di produzione affine, con istoriati e grottesche, su forme monumentali fino verso la fine del secolo. Risulta infatti ancora vivo nel 1591. In precedenza era stato a Firenze fra il 1573 e il 1578, per sovrintendere alla cottura della porcellana medicea. Un altro nipote di Guido, Camillo Gatti,  partì da Urbino verso il 1561 per mettersi al servizio del duca di Ferrara, assieme al fratello Battista, e vi morì nel 1567.


[1] Wilson 2004 p. 206

[2] Encomio della patria di Monsignor Bernardino Baldi da Urbino...al Serenissimo Principe Francesco Maria II, Urbino 1706, pp.130-131 (Luni 2004, scheda XI.8 p. 387).

[3] Qui sarebbero stati eseguiti due splendidi servizi, quello recante lo stemma D’Avalos e quello decorato con storie tratte dall’Amadigi di Gaula (Wilson 2004 p. 206)

[4] Consegnò a Firenze, nel 1573, un grande servizio per Francesco e Ferdinando dei Medici, di cui molti esemplari sono tuttora al Bargello, ed è il probabile autore del rinfrescatoio della Wallace Collection ( Norman 1976  n.C 107 pp.218-223) firmato FFF. 

 


La famiglia dei Patanazzi è documentata a Urbino fin dalla prima metà del ‘400[1], senza però che sia possibile identificarne la produzione. Questo avviene per la prima volta nel secolo successivo con la figura di Antonio, figlio di Giovanni e di Battista, sorella del grande Nicola. Soprannominato “Tono buono”, nel 1540 sposò la figlia di un altro vasaio urbinate, Federico di Giannantonio; a quel tempo disponeva già di una propria bottega. Nel 1562 e ’64 è probabilmente lui quel “Maestro Antonio da Urbino” che riceve pagamenti dalla Reale Tesoreria di Torino assieme ad Orazio Fontana; si era quindi recato anch’egli al servizio del Duca di Savoia. Il 28 aprile 1579 Antonio riceve da Sinibaldo di Vincenzo Maggeri, speziale di Urbino, 44 scudi in pagamento di vasellame da farmacia. Solo nel 1580, però, la sua firma compare su due grandi vasi da parata del corredo farmaceutico di Roccavaldina (Messina)[2], uno ancora nella sede originaria, l’altro nel Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza[3]. Antonio morì il 24 maggio 1587. 


[1] Per tutte le notizie sui Patanazzi facciamo riferimento a quanto contenuto in Negroni 1998

[2]  Liverani G. 1967

[3] In entrambi i casi si tratta di grandi anfore su base sagomata triangolare con due anse a forma di arpia, recanti su un lato lo stemma della farmacia (ovvero del  committente, l’aromatario Cesaro Candia), e sull’altro, entro un medaglione contrapposto, una scena istoriata. 



La sua opera fu continuata dal figlio Francesco, che il 31 agosto 1588 sposò Leonora Ventura, figlia di Lattanzio, noto lapicida e architetto della Santa Casa di Loreto. Come il padre, appartenne anch’egli alla Compagnia di Santa Croce, e divenne per due volte priore della municipalità. Nell’aprile 1585 l’amministrazione della Santa Casa comprò “una cassa di diversi vasi fatti a grotesco” per l’arredamento del palazzo apostolico, e nel luglio successivo per arredare la villa estiva del Governatore gli furono pagati 14 fiorini per “due bacilli grandi, due bronzi e due tassoni, tutti grottesca, istoriati”. Il 10 dicembre 1599 Bernardino Albani, a nome della Principessa di Bisignano (Probabilmente Isabella Della Rovere, figlia di Guidubaldo II), redigeva un contratto per una“credenza di vasi historiati et a grottesco”[1]. Dallo stesso contratto si apprende che già nel 1593 il Patanazzi aveva eseguito per la stessa principessa una credenza.

Attorno al 1579-80 va datato il servizio “Ardet aeternum”, recante una delle imprese di Alfonso II duca di Ferrara: è attribuita a Curzio Borghesi, nelle Imprese illustri di Camillo Camilli (Venezia 1586, p.37): rappresenta un fuoco di asbesto, la pietra mitologica che, una volta accesa, non poteva essere mai spenta, ed era emblema di amore eterno. L’impresa fu adottata dal duca in occasione delle nozze con Margherita Gonzaga, da lui sposata nel 1579. Il servizio comprende, oltre ai piatti di varie fogge e misure, anche saliere, grandi bacini, brocche e fiasche,e appare dovuto in gran parte a Francesco. Perlomeno vi compaiono i caratteri stilistici di un grande bacile a grottesche conservato nel British Museum di Londra, datato 1608, su cui è scritto che fu eseguito nella sua bottega[2]

Lo schema e gli elementi decorativi dei Patanazzi sono gli stessi dei Fontana, con medaglioni istoriati circondati da grottesche su fondo bianco, nei quali ricompaiono talvolta le stesse fonti grafiche (ad esempio i disegni forniti dagli Zuccari per il Servizio Spagnolo, ed evidentemente utilizzati a lungo e poi ricopiati dai maiolicari). Anche le forme ceramiche sono simili, complesse e ricche di applicazioni plastiche: fiasche da pellegrino con le volute simmetriche e tappo a vite, grandi vasi con anse modellate e protomi leonine o mostruose. Si tratta comunque di modi ampiamente condivisi in tutta la produzione urbinate della seconda metà del secolo e degli inizi del successivo.


[1] Negroni 1998 p.108. L’elenco è in appendice

[2] Wilson 1987 p.154 fig. 243

 


Francesco Patanazzi prese in adozione Alfonso, nato nel 1583, che lo affiancò nel lavoro ed ereditò la bottega nel 1616. Morì entro il 1627, e non pare che i suoi figli abbiano continuato a fare i ceramisti. Fra le sue opere ne figurano alcune firmate: un piatto datato 1606 del Victoria and Albert Museum di Londra con Romolo che riceve le donne sabine[1], uno del Museo civico di Pesaro su cui è raffigurato Priamo che si consulta con i suoi sull’opportunità di far entrare in città il cavallo[2] Nel museo di Pesaro è conservato anche un piatto con al centro 1'allegoria della Fama, racchiusa entro un quadrato e circondata da grottesche su fondo bianco, firmato con il nome per esteso sul retro e con le iniziali nella parte anteriore. Lo stile che emerge da queste opere certe di Alfonso è un po’ grossolano, con figure sintetiche e pesanti, rigide nei movimenti e nei panneggi [3].  Questo stile si trova in un gran numero di opere, e questo ci fa pensare che la produzione di Alfonso sia stata quantitativamente molto vasta. Opere attribuibili alla sua bottega si trovano in numerosi musei, e anche in parte dei vasi farmaceutici della Santa Casa di Loreto. E' vero che per il gruppo vi è un atto di pagamento a officina urbinate del 1531[4], quando Alfonso era già morto. Non sarebbe però il primo caso di pagamento ritardato per forniture ceramiche.

Con i Patanazzi siamo ormai entrati nel XVII secolo, fase di decadenza della ceramica urbinate, che non ritornerà più all’antico splendore, continuando a replicare stancamente i modelli del passato.


[1] Inv. 2612-1856, in Rackham 1940 2 voll., n.869. Alla base della scena, nella parte anteriore, è la scritta abbreviata  “ALF.P.F. / VRBINI 1606”, mentre sul retro la stessa si ripete per esteso: “ALFONSO PATANAZZI FECIT VRBINI 1606”.  

[2] Mancini della Chiara 1979, n.18. La scritta esplicativa termina con “VRBINI/ALFONSO PATANAZZI/FE”.   

[3] Naturalmente non è possibile dire quanto sia dovuto personalmente ad Alfonso o sia il risultato di collaborazione 

[4] Ceramiche urbinati 1976, p.14. 

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