TOSCANA

Firenze, Montelupo, Cafaggiolo


La maiolica medievale verde-bruna fu prodotta un po’ ovunque in Toscana ma, con la fine del Trecento e l’affermarsi delle nuove tipologie decorative legate alle fasi tardo gotica e rinascimentale, la produzione di maiolica fine e decorata sembra concentrarsi in alcuni luoghi ben precisi. Firenze, innanzitutto, diventò un centro di attrazione per numerosi ceramisti del contado che vi si trasferirono: Tugio di Giunta veniva da Bacchereto, Bartolo di Piero da Serravalle Pistoiese, Domenico di Cecco da Montelupo. Gran parte di quella che il Ballardini chiamò Zaffera in rilievo, databile alla prima metà del Quattrocento, fu probabilmente qui  prodotta. Si tratta di oggetti di uso farmaceutico, conviviale o da parata, nei quali si riflette il gusto  per gli ornati ricchi e sontuosi, araldici, animali e vegetali, che si sviluppano sinuosamente riempiendo quasi ogni spazio in una sorta di horror vacui.

Non lontano dal capoluogo, nell’arco del quattrocento assume però sempre più importanza Montelupo, un piccolo centro che ben presto diviene il più grosso produttore di ceramica della regione. Eppure la quasi totalità della produzione montelupina, ad eccezione dei piatti secenteschi figurati, è rimasta completamente ignorata fino alla scoperta del Pozzo dei lavatoi, avvenuta a partire dal 1973. Furono a quel tempo rimossi alcuni pubblici lavatoi nella zona più antica del paese, e si trovò che erano stati costruiti su un pozzo riempito con materiale di scarico in gran parte proveniente dalle fornaci rinascimentali del luogo[1].Da allora il pozzo ha restituito una enorme quantità di materiale, che ha fornito una documentazione completa delle tipologie montelupine e che, restaurato ed esposto, costituisce il nucleo principale del locale Museo della ceramica. 

Gradualmente Montelupo divenne la fornace di Firenze, come Deruta lo fu per Perugia.  Le sue officine vivevano del capitale fiorentino. Lo dimostra il contratto stipulato nel 1490 da Francesco Antinori di Firenze, col quale questo ricco e nobile mercante vincolava per tre anni la produzione di ventitre vasai montelupini, impegnandosi ad acquistarla in blocco a prezzi concordati[2]. Dopo l’assedio imperiale del 1530 non risulta che a Firenze ci fossero più fornaci, segno che si tendeva ad allontanarle dal centro principale e a concentrarle in città satelliti, per i rischi di incendio e la vicinanza alle materie prime. 

A Montelupo la concentrazione dovette essere decisamente notevole. La produzione si sviluppò con continuità fin dai tipi tardo medievali decorati in verde e bruno, destinati all’uso. Il secolo XV segnò, come in tutta l’Italia centro-settentrionale, l’acquisizione dei motivi decorativi tardo-gotici, con una spiccata componente islamica. Gli orci e i boccali con foglie di quercia blu a rilievo sono generalmente attribuiti a Firenze, ma reperti di scavo assai simili sono stati trovati anche a Montelupo. La vicinanza col porto di Pisa, entrato a far parte del dominio fiorentino a seguito della guerra del 1405-06, e il flusso commerciale dalla Spagna favorirono poi, nel corso del secolo, l’imitazione delle tipologie ispano-moresche, nelle versioni arabescate blu e bianche con qualche tocco di giallo freddo, e in quelle monocrome giallo-arancio che imitano il tono del lustro. Verso la fine del secolo vi si affiancano le foglie accartocciate, la palmetta persiana e l’occhio di penna di pavone in particolari versioni appiattite e geometrizzate che perdurano per tutto il Cinquecento. Si tratta di una produzione assai vasta, per la quasi totalità destinata all’esportazione, qualitativamente di medio livello, per uso da tavola e farmaceutico. Vi ricorrono emblemi monastici e stemmi nobiliari, che indicano forse una committenza elevata ma che spesso, come nel caso delle armi medicee, costituiscono un generico omaggio alle famiglie dominanti. A partire dalla fine del ‘400 i colori consueti della maiolica si arricchiscono di un tono intenso di rosso simile al bolo armeno[3], che diviene uno degli elementi caratteristici della produzione del luogo. 

Nel corso del secolo XVI le officine montelupine esauriscono la fase più creativa: le forme si standardizzano, gli ornati si irrigidiscono. La produzione continua ad essere però quantitativamente abbondante, e alle tipologie già elaborate alla fine del secolo precedente si aggiungono quelle a ovali, ovali e rombi, reticolo puntinato, nastri spezzati, blu graffito, intrecci di vario genere. Assai comune diviene anche il motivo alla porcellana, le cui fogliette blu su fondo bianco imitano le porcellane orientali.   

Soprattutto nelle forme chiuse, alla base dell’ansa, è talvolta tracciata la sigla di bottega.  A proposito di una delle più comuni, generalmente letta come “Lo”[4], si è giunti con una certa probabilità all’identificazione. Si tratterebbe della bottega di Lorenzo di Piero di Lorenzo, menzionato in un contratto del 1518 nel quale Clarice Strozzi dei Medici gli paga una serie di vasi per la sua villa Le Selve[5], e in alcuni pagamenti dal 1516 al 1522 da parte del monastero di San Donato in Polverosa[6]. L’aver trovato la sigla su alcuni esemplari con lo stemma Medici Strozzi e con la lettera D attraversata dal pastorale parrebbe confermare l’identificazione della bottega.

La seconda metà del Cinquecento non sembra per Montelupo un periodo felice, caratterizzata com’è dalla continua riproposizione del consueto repertorio, e da un sostanziale impoverimento dello smalto e dei pigmenti. Si avvertono precise influenze di altri centri, di cui i vasai montelupini subivano dolorosamente la concorrenza. Da Faenza, ad esempio, allora all’apice del suo sviluppo, derivano tipologie vicine ai Bianchi e suddivisioni a quartieri  spesso usate nell’ornato chiamato a paesi. Anche il fogliame, di influenza ligure e veneziana, occupa grande spazio nella maiolica montelupina tardo-cinquecentesca e secentesca, mentre la raffaellesca (o grottesca su fondo bianco) denota un tentativo di aggiornamento sui modelli urbinati e durantini.

Alla fine del secolo XVI e agli inizi del successivo divengono numerose le committenze pubbliche, con le quali si cercava di tutelare un artigianato ormai in serie difficoltà. Fra esse spiccano le fiasche con le armi congiunte di Ferdinando I e Cristina di Lorena (1589-1602), poi di Cosimo II Medici e Maria Maddalena d’Austria, eseguite probabilmente fra il 1610 e il 1621; i vasi per il completamento della farmacia di Santa Maria Novella di Firenze (circa 1520-’30), e il pavimento in maiolica della Sala della Stufa in Palazzo Pitti.  La caratteristica produzione dei cosiddetti arlecchini o bravacci, piatti da esposizione con grandi figure caricaturali su fondo giallo, conclude questa lunga tradizione. 

Cafaggiolo, manifattura che ebbe origine dal trasferimento nel castello mediceo, alla fine del Quattrocento, dei vasai montelupini Piero e Stefano di Filippo, i cui discendenti furono chiamati Fattorini. Essi continuarono le tipologie di Montelupo, e contrassegnarono la produzione con il monogramma S P.



[1] Vannini 1977.

[2] Cora 1973, I, p.108-112 ; II, tav.361 -362

[3] L’uso di questo rosso si estende anche alla manifattura di Cafaggiolo. A Faenza lo si trova a partire circa dal 1520, nella produzione berettina

[4] Alinari 1983 p.199-212

[5] Spallanzani 1984 p.381-387

[6] Marini 1998 p.45-57

 

Siena


Numerosi sono invece gli esemplari di Siena, dove, dopo una fase medievale particolarmente ricca, la produzione di maiolica continua sui modelli tardo-gotici. Verso la metà del secolo XV sono attivi i Mazzaburroni, nella cui bottega furono eseguiti i pavimenti Docci in San Francesco (1475 circa)[1] e Bichi in Sant’Agostino (1488)[2]. Il ricco fogliame gotico, gli stemmi e gli emblemi mostrano una tecnica sapiente e una qualità decorativa di alto livello. Il nuovo secolo segna per i maiolicari senesi, come ovunque, l’abbandono graduale del repertorio gotico in favore di quello rinascimentale[3]. A Siena il processo è favorito dalla presenza, nel 1502, del Pinturicchio. Le grottesche che trionfano sulla maiolica hanno indubbie parentele con quelle da lui dipinte nella libreria Piccolomini nel Duomo. Al 1504 risale il pavimento dell’Oratorio di Santa Caterina [4], al 1507 quello a triangoli col crescente dei Piccolomini destinato proprio alla famosa libreria, al 1509 quello a grottesche proveniente dal Palazzo del Magnifico Pandolfo Petrucci, al 1513 circa quello della cappella Piccolomini in San Francesco. Appartengono a questo periodo numerosi albarelli il cui ornato si stende a fascia attorno al corpo, entro cui si avvolge il cartiglio col nome del medicamento. Essi sono decorati con  grottesche minute su fondo arancione, blu scuro o nero, entro le quali spiccano bucrani, testine angeliche, cornucopie, perle, girali e delfini.  Accanto all’influenza del Pinturicchio si avverte quella della maiolica faentina, mediata forse dalla presenza di Maestro Benedetto da Faenza, stabilito a Siena a partire dal 1503[5].  Menzionato nella documentazione d’archivio, Benedetto ha lasciato la sua firma su un unico piatto, quello con San Girolamo penitente del Victoria and Albert, dipinto in monocromia azzurra su fondo bianco, e con un giro di fogliette alla porcellana tutt’attorno alla tesa, stilizzate in maniera particolare.  Tuttavia, poiché in quel periodo a Faenza erano piuttosto comuni gli ornati a grottesche minute su fondo blu o arancione in stilizzazioni che ricordano da vicino quelle degli albarelli senesi, si è ritenuto che anche questo influsso possa essere spiegato dalla presenza del vasaio faentino.  Alcuni oggetti, soprattutto forme aperte, si prestano a incertezze attributive fra i due centri, poiché in tutto simili  a frammenti di scavo da Faenza, ma dotati di un fondo giallo-ocraceo ritenuto in genere tipico della produzione senese degli inizi del secolo[6].  E’ questa la fase più vitale della maiolica di Siena, la cui qualità può essere paragonata non solo a quella faentina, ma al contemporaneo Petal-back derutese, con il quale pure viene talvolta confusa. In seguito la produzione diviene ripetitiva, e replica sempre più stancamente gli ornati alla porcellana, con esiti di scarso interesse.



[1] Luccarelli 1984b

[2] Luccarelli 1983

[3] Per notizie sulla maiolica senese, v. Guasti  1902 p.333;   Douglas  1903

[4] Luccarelli 1995 pp.54-55; Quinterio-Monti 1996. E’ attualmente in cattive condizioni, quasi completamente rifatto negli ultimi anni del 1500 dal vasaio Girolamodi Marco di Pantaneto (alcune mattonelle sono datate 1598,1599) e nel secolo scorso da Bernardino Pepi. Le date originali che compaiono sulle mattonelle di questo pavimento, in pessimo stato, sono 1504, 1505, 1527.

[5] Douglas 1937; Luccarelli 1984 a

[6] Luccarelli 1990 a, p.360-361

eraffaellesca (o grottesca su fondo bianco) denota un tentativo di aggiornamento sui modelli urbinati e durantini.

 

Cerca nel sito

Loading
Per essere aggiornato sulle novità, leggi le NEWS