CASTELLI D’ABRUZZO nel secolo XVI

Di Carola Fiocco e Gabriella Gherardi

 

Fin dal secolo XIV fu prodotto in Abruzzo vasellame ricoperto di smalto bianco (maiolica), e decorato col verde di rame e con il bruno di manganese. Successivamente i reperti di scavo provenienti da Castelli, Penne e Anversa degli Abruzzi testimoniano la presenza, per tutto il ‘400, della ceramica ingobbiata, graffita e invetriata. Nell’ultimo quarto del secolo ricompare la maiolica, particolarmente abbondante a Castelli: gli scarichi di fornace dei Grue e dei Pompei, i più importanti ceramisti del luogo, hanno restituito frammenti di boccali che potrebbero risalire a quel periodo, con tracce di motivi decorativi tardo-gotici. E’ però necessario arrivare al secolo successivo per trovare due nuclei ben connotati di maioliche importanti: i mattoni del primo soffitto di San Donato e la tipologia di vasellame farmaceutico Orsini Colonna[1], ad essi collegata. 

Ancora oggi il soffitto della chiesa di San Donato, a Castelli, è formato di mattoni rettangolari in maiolica decorata, sostenuti da una struttura lignea. Si tratta però di mattoni secenteschi, dipinti in stile “compendiario”, con una gamma cromatica ridotta che lascia ampio spazio al bianco di fondo.  Il soffitto cinquecentesco, in parte conservato nel museo civico di Castelli, era invece coloratissimo:  su uno smalto vetroso, ricco di piombo, che si scaglia con facilità, spicca per intensità il blu di cobalto, vivacemente contrastato dai gialli e dagli aranci. Anche il verde è squillante, mentre il bianco del fondo fornisce un elemento di contrasto gli altri colori, senza  predominare. Anzi, la decorazione tende a ricoprire ogni spazio disponibile, tranne i bordi dei lati corti, destinati a essere coperti dai travi. Numerosi mattoni sono a fondo azzurrato, “berrettini”, e in questo caso il tono generale dei colori appare più sobrio, quasi monocromo. Solo gli ornati non figurativi si stendono liberamente sulla superficie dei mattoni: i motivi “alla porcellana”, costituiti di tralci con piccole foglie blu; le infiorescenze a pannocchia, che allargano lateralmente le propaggini, talvolta così stilizzate da diventare un astratto ricamo; i rosoni, i nodi gordiani, le punte di freccia, le stelle etc.     Per inserire elementi figurativi o stemmi, i decoratori delimitano invece uno spazio al centro del mattone. Qui trovano posto busti di vecchi, uomini e donne di fronte o di profilo, animali, emblemi araldici, scritte, di significato morale o religioso

Strettamente collegato al mattonato per tecnica, colori e stile decorativo è un tipo di vasellame chiamato “Orsini–Colonna”, che deriva questo nome convenzionale da una bottiglia biansata sulla quale è raffigurato un orso che abbraccia una colonna, mentre una scritta commenta “ET SARRIMO BONI AMICI” (saremo buoni amici)[2]. Le due famiglie per le quali si auspica una buona amicizia sono dunque quelle degli Orsini e dei Colonna, tradizionalmente nemiche ma, almeno nella circostanza cui allude la bottiglia, alleate. A questa raffigurazione emblematica fa riferimento una grande quantità di vasi di uso farmaceutico, costituita di forme chiuse, ad eccezione di un piatto e una coppa[3]. Non si tratta di un unico corredo, bensì di parecchi, contrassegnati da stemmi diversi, tra cui quelli degli Orsini e dei Pappacoda[4].

Le forme (brocche, vasi biansati su piede alto, albarelli, bottiglie) sono piuttosto elaborate, con manici a torciglioni e becchi a drago, ed erano in origine fornite di coperchio. Lo smalto è lucido e vetroso, i colori vistosi basati sul blu intenso, il verde e il giallo arancio. La decorazione accessoria è quanto mai varia, di tipo vegetale stilizzato, mentre quella principale consiste soprattutto in busti maschili e femminili variamente abbigliati. Vi ricorrono però anche  uomini e donne a figura intera, animali e scene vere e proprie di carattere storico, allegorico, mitologico: Apollo e Dafne, la “Carità Romana”, Cleopatra con l’aspide. Un putto appoggiato a un teschio reca la scritta hodie mihi cras tibi (oggi a me, domani a te), che costituisce un  memento mori. Per la maggior parte di queste scene non sono ancora state trovate fonti grafiche convincenti, se non sporadicamente[5]. Il cartiglio farmaceutico con il nome del preparato medicinale si trova generalmente nella parte inferiore del vaso, e la scritta è quasi sempre in caratteri gotici, meno spesso in caratteri latini.

Entrambi i gruppi (vasellame e mattonato)  furono eseguiti nella bottega di Orazio Pompei, membro di una grande famiglia di maiolicari. Orazio ha infatti scritto il proprio nome su uno dei mattoni, e su almeno due vasi. Ovvio quindi che ci sia identità stilistica e tecnica fra mattonato e Orsini- Colonna: i decoratori furono in gran parte gli stessi, come pure la bottega di provenienza. Le date di Orazio convergono tutte attorno alla metà del ‘500. Egli è autore di una targa con l’Annunciazione tratta da una stampa del Durer, datata 1557[6], e di un’altra con la Vergine e il Figlio, firmata con l’abbreviazione del suo nome, ORO, e datata 1551. Quest’ultima era l’insegna della bottega. Lo stile del vasellame e del mattonato collima perfettamente con queste date[7], e rimanda anch’esso alla metà del secolo: i colori, le forme e l’intonazione caricaturale di gran parte della decorazione presentano un inequivocabile aspetto manierista, tipico di questo periodo. Gli abiti stessi dei personaggi effigiati trovano precise corrispondenze nei ritratti del Bronzino, del Morone e di Antonis Mor[8] .

Di fronte a questi elementi ci sembrano superabili le obiezioni mosse in base all’araldica[9] o alla data del presunto episodio cui alluderebbe la fiasca del British Museum[10]. A proposito di quest’ultimo, un’ipotesi plausibile ci sembra essere il matrimonio fra l’eroe di Lepanto, Marcantonio Colonna, e Felice Orsini, avvenuto nel 1552. Il portale del loro castello, ad Avezzano (Abruzzo), reca appunto scolpito un emblema nel quale due grandi orsi affiancano, rampanti, una colonna posta al centro[11].  Quanto all’ipotesi che l’esecuzione degli Orsini–Colonna si sia prolungata nel tempo, e che debba di conseguenza essere operata una periodizzazione all’interno del gruppo[12], questa possibilità va confrontata con la straordinaria omogeneità tecnica e stilistica che fa invece pensare a un periodo delimitato di produzione. Il maggiore o minore arcaismo della decorazione è probabilmente dovuto più alla presenza di artefici diversi che a  fasi esecutive lontane fra loro.

Alla ricerca di una produzione che potesse porsi come antesignana dell’Orsini–Colonna, che non può certo nascere dal nulla, ma presuppone dei precedenti di livello elevato, abbiamo più volte proposto[13] l’appartenenza castellana di alcuni gruppi di vasellame farmaceutico di difficile collocazione (ma con precise assonanze con l’Orsini-Colonna): i cosiddetti servizi B (o B°), T, e quelli con un ornato che abbiamo definito “alla porcellana colorata”, perché caratterizzato da tralci di fogliette ricurve blu su cui spiccano grandi fiori rotondi puntinati in verde e arancio. Fra questi ultimi, ci sembra particolarmente interessante un albarello del Museo d’Arte Antica di Roma su cui è raffigurato San Sebastiano: la fisionomia del santo, con i capelli divisi a ciocche ondulate e la bocca sottolineata da un tocco di arancio, è del tutto simile a quelle sul vasellame castellano.

Successivamente,la maiolica castellana si evolve acquisendo modi “compendiari”, cioè graficamente poco definiti, veloci e quasi schizzati. Ad essi si associa la preminenza cromatica dello smalto di fondo, bianco o turchino[14], sul quale la decorazione occupa uno spazio ridotto. Fra il vasellame caratterizzato da uno splendido blu di fondo, ricco e pastoso, sul quale l’ornato è tracciato in bianco con tocchi di giallo, talvolta con l’aggiunta di oro, figurano alcuni grandi servizi recanti stemmi nobiliari, fra cui quelli Farnese (1574[15]), Orsini, Peretti, Ghisleri. Altri sono invece smaltati in verde, come quello eseguito per gli Acquaviva d’Aragona in occasione delle nozze fra Giosia, XII duca di Atri, e Margherita Ruffo. Oltre al vasellame, numerose mattonelle da pavimentazione presentano anch’esse ornati bianchi sul blu di fondo.  Di particolare importanza sono quelle che costituivano il pavimento di Santa Maria della Spina, nei pressi di Isola del Gran Sasso, smantellato e disperso alla fine degli anni 50. Esso riportava la data 1576, e su una mattonella era menzionato, come committente, il castellano Annibale Pompei. Assai simili sono i pavimenti della chiesa di San Pietro a Loreto Aprutino e della cappella Polverini in Santa Maria delle Grazie a Caponapoli[16] .  

La produzione “compendiaria” più nota, comune anche al resto della maiolica italiana (a fondo bianco, con la decorazione velocemente tracciata in bicromia giallo–blu) è anch’essa ben rappresentata a Castelli, dove generalmente si aggiungono  tocchi di verde e di bruno. Fra le opere precoci vi è  una targa datata 1566, su cui è rappresentato San Michele che sovrasta il demonio. Lo stile è ancora estremamente vicino all’Orsini–Colonna, ma i  colori  sono già compendiari [17]. Altre opere datate sono una targa con l’Annunciazione datata 1584 e uno scrittoio portatile  stemmato,datato 1588[18]. In questa fase prosegue il gusto per le forme insolite e complesse, che già caratterizzava la precedente maiolica castellana, mentre la presenza frequente di stemmi indica un apprezzamento di questi prodotti anche presso famiglie di alta posizione sociale.

La maiolica compendiaria predomina nel secolo XVII, e troverà il suo capolavoro con il mattonato del secondo soffitto di San Donato.



[1] L’attribuzione del vasellame “Orsini–Colonna” alle officine di Castelli di Abruzzo fu fatta per la prima volta durante il Convegno di Studi tenuto a Castelli nel 1984, ad opera di chi scrive. Gli atti furono pubblicati l’anno successivo (v. Fiocco – Gherardi 1985 pp. 67-104)

[2] Londra. British Museum, Inv. MLA 1852, 11-29, 2,  Wilson  1987 ,  n.219.

[3] San Pietroburgo, museo dell’Hermitage, inv. F 3247, in  Kube  1976 p.52 ; Washington, Corcoran Art Gallery, inv. 26.308, in  Watson 1986 n.18 p.58.

[4] I Pappacoda sono una famiglia comitale di Castelli, mentre gli Orsini ebbero la signoria della città, con qualche interruzione, dal 1340 circa fino al 1525, con una breve ripresa di potere nel 1526, anno in cui Camillo Pardo Orsini perse definitivamente il feudo e ritornò a Roma, dove  morì nel 1553. La conoscenza dell'araldica castellana è dovuta alle ricerche di Aleardo Rubini.

[5] Vedi ad esempio una bottiglia nel Musée des arts décoratifs di Lione con la raffigurazione di Cleopatra punta dall’aspide, derivata da una famosa incisione di Marco Dente raffigurante Vulcano, Venere e tre amorini (collezione Gillet, Fiocco-Gherardi-Sfeir Fakhri 2001 n.

[6] Chieti, Museo–Pinacoteca Barbella

[7]  Fiocco–Gherardi 1986

[8] Su questo argomento abbiamo riportato, quali esempi particolarmente significativi, il confronto fra il ritratto di Laura Battiferri del Bronzino e i busti femminili del mattonato e dell’Orsini–Colonna, e il confronto fra il ritratto di Alessandro Farnese (Antonis Mor, 1557) e un giovane su una bottiglia nel Museo Nazionale di Firenze (Fiocco–Gherardi 2002 pp. 51-52)

[9] Nel mattonato si trova effigiato lo stemma di Alfonso, duca di Calabria, privo dei gigli reali, precedente cioè all’ incoronazione, avvenuta nel 1494. Tuttavia nella decorazione ceramica raramente l’araldica è resa in modo accurato, ed è possibile che i decoratori replicassero elementi araldici già presenti nella chiesa, per onorare antichi benefattori. A nostro avviso il dato stilistico, unitamente alla presenza della firma di Orazio, è più indicativo del dato araldico, non sempre facile da valutare.

[10] Secondo il Ballardini si trattava della Pax Romana del 1511 fra le due famiglie, voluta da Giulio II (Ballardini 1936).

[11] Fiocco-Gherardi 1990, p. 126 

[12] De Pompeis V. 1990

[13] Fiocco–Gherardi 1986, 1992, 2000

[14] Ravanelli Guidotti 1985b

[15] E’ la data che figura su un piatto e una scodella del museo di Capodimonte a Napoli con stemma Farnese, che fanno parte di un gruppo di 72 esemplari provenienti da palazzo Farnese a Roma, ereditati dal re Carlo di Borbone (Arbace 2000, p. 32)

[16] Alcune mattonelle turchine sono emerse anche da scavi del Palazzo reale a Napoli

[17] Napoli, museo Duca di Martina. A proposito del compendiario abruzzese della seconda metà del ‘500, v. anche Fiocco-Gherardi 1989)

[18] Entrambi gli oggetti sono pubblicati in Maioliche cinquecentesche di Castelli 1989 nn. 589 e 590

 



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