FAENZA SECOLI XV-XVI


Nella prima metà del secolo XV Faenza, come gli altri centri ceramici italiani, migliora la qualità degli smalti, e introduce nuove decorazioni di influenza islamica, talvolta mediate attraverso i tessuti oltre che attraverso le ceramiche di importazione. Anche qui sono dunque presenti le tipologie dal Ballardini chiamate zaffera a rilievo e italo-moresche, in cui predomina il blu talvolta a rilievo, associato al bruno di manganese, al giallo limone e al verde freddo[1]. La metà del secolo vede l’introduzione dei fastosi motivi del gotico fiorito, che si avvalgono di associazioni di colori molto più calde, e che furono anch’essi classificati dal Ballardini con denominazioni di comodo, riservate esclusivamente alla maiolica: Famiglia gotico-floreale, caratterizzata dalle fiamme e dalla foglia a cartoccio, Famiglia a occhio di penna di pavone, Famiglia a palmetta persiana, col motivo del melograno[2]. Il repertorio rinascimentale comincia a penetrare verso il 1470-’80, sotto forma di ovoli e dardi, perle, bisanti, ghirlande etc. Inizialmente si affianca ai decori precedenti, come avviene nel pavimento Vaselli in San Petronio a Bologna, vero grande repertorio della decorazione faentina di cui si conosce almeno uno degli autori, Pietro Andrea da Faenza, e che fu eseguito tra il 1492 e il ‘97[3].



[1] Ballardini 1938 pp. 24-25

[2] ibid. p. 26

[3] Nel 1497 vi è infatti un riepilogo scritto dei lavori eseguiti nei dieci anni precedenti, in cui si annota come nei primi cinque  si potesse dire tranquillamente messa tutti i giorni, mentre nei successivi cinque non era stato possibile farlo decentemente. A questa seconda fase va probabilmente fatta risalire la messa in opera del pavimento. La data 1487 che vi figura scritta non sarebbe dunque quella di esecuzione, perché troppo tempo sarebbe intercorso fra l’esecuzione e la messa in opera.

 

IL PAVIMENTO VASELLI

Verso la fine degli anni ottanta una bottega faentina ebbe l’incarico di eseguire un pavimento in maiolica per un notabile bolognese, il canonico Donato Vaselli. Il pavimento era destinato a una cappella nella chiesa di San Petronio, la più importante della città dopo la cattedrale San Pietro, di cui il canonico aveva ottenuto il giuspatronato. Quando una chiesa veniva costruita, alcune cappelle venivano dedicate a santi già prima venerati sul luogo, specie se la nuova costruzione sorgeva su una precedente, abbattuta per farle posto o inglobata nell’ampliamento. Era una specie di obbligo per evitare che il santo in questione si sentisse dimenticato o trattato male. Anche altre cappelle erano per così dire obbligate, come quella battesimale (in genere la prima a sinistra), e quelle dedicate alla Vergine o al Santissimo Sacramento. Era però consuetudine concederne in uso la maggior parte a chi ne facesse richiesta, volendo dedicare la cappella al proprio santo protettore, celebrarvi funzioni private o  seppellirci i propri morti. A quell’epoca infatti le sepolture avvenivano nell’impiantito, nei muri o nelle vicinanze della propria chiesa parrocchiale. Questo è il significato di giuspatronato. Una parte delle cappelle restava così col solo intonaco, sul quale era magari dipinto un tendaggio, in attesa dell’affidamento. In seguito chi le otteneva pagava per il privilegio, e soprattutto si impegnava ad arredare l’ambiente in maniera adeguata, spesso spendendo somme enormi. Ma questo era un vanto per sé e per la propria famiglia, e i patroni servivano in questo modo il santo cui dedicavano l’opera e insieme la propria reputazione fra i concittadini. Il canonico Vaselli non badò a spese. Ottenuto ufficialmente il giuspatronato il 3 aprile 1489, decise di dedicare la cappella a San Sebastiano, che protegge dalle pestilenze. Il santo infatti, trafitto dalle frecce, sembrava rappresentare col suo martirio la terribile malattia, che si credeva provocata da influenze maligne dell’aria e dai raggi stessi del sole. Il canonico si impegnò a procurare, entro dieci anni, la tela dipinta da collocare sopra l’altare (pala), il recinto, le vetrate, e  tutto quanto potesse servire a celebrare la messa, rivolgendosi agli artisti e agli artigiani più prestigiosi dell’ambiente bolognese. Lorenzo Costa e Giacomo Francia dipinsero rispettivamente gli Apostoli e l’Annunciazione che circondano la pala centrale, raffigurante il martirio di San Sebastiano. Quest’ultima, nella quale compaiono il canonico inginocchiato e il signore della città Giovanni II Bentivoglio, fu probabilmente eseguita da Guido Aspertini, che pare si incaricasse anche di preparare i cartoni per le vetrate, su cui sono raffigurati i santi protettori di Bologna. Le bellissime tarsìe dei banchi vennero eseguite da Jacopo de Marchi e dai suoi fratelli, mentre per il pavimento in maiolica ci si rivolse a Faenza. Una bottega faentina eseguì le oltre mille esagonette, ciascuna con un ornato diverso dall’altra. Dovette essere un lavoro lungo, oltre che impegnativo, forse commissionato nel 1487, data che figura dipinta su una delle mattonelle. Probabilmente il canonico sapeva già  che avrebbe avuto la cappella, e fin da allora aveva iniziato a preoccuparsi dell’arredo. Nel 1497 vi è infatti un riepilogo scritto dei lavori eseguiti nei dieci anni precedenti, in cui si annota come nei primi cinque si potesse dire tranquillamente messa tutti i giorni, mentre nei successivi cinque non era stato possibile farlo decentemente. A questa seconda fase va probabilmente fatta risalire la messa in opera del pavimento. La data 1487 che vi figura scritta non sarebbe dunque quella di esecuzione, perché troppo tempo sarebbe intercorso fra l’esecuzione e la messa in opera. E’ più probabile che occorra rimandare  a un periodo fra il 1490 e il ‘95.

Non sono stati trovati documenti che indichino a quale bottega il canonico si fosse rivolto, tuttavia nel pavimento è raffigurato un pittore di maioliche intento a ornare un’esagonetta. Secondo le abitudini del tempo, egli la sorregge con la mano sinistra mentre dipinge (oggi di solito i decoratori preferiscono appoggiare l’oggetto  a un supporto su un tavolo). Accanto a lui si vede un cartello con su scritto Petrus Andrea de Favencia (Pietro Andrea da Faenza). Si crede quindi che un tale Pietro Andrea abbia dipinto il pavimento, anche se su altre mattonelle compare il nome della Cà Betini. Pietro Andrea è stato successivamente identificato come tale Pietro Andrea Sellini.

L’identificazione sulla base di un nome è sempre poco sicura. E se, continuando a frugare fra i documenti, si trovassero notizie di un Pietro Andrea Bettini? All’epoca del pavimento il Sellini era molto giovane, e riesce difficile credere che abbia avuto tutta la responsabilità dell’opera. Il numero delle mattonelle è infatti altissimo e gli ornati talvolta piuttosto complicati. Alcuni ricorrono comunemente sul vasellame faentino dell’epoca, e facevano quindi parte del repertorio abituale dei ceramisti: le Belle Donne, ad esempio, i cuori trafitti, i cani e gli altri animali, le mani che si stringono, i rosoni formati da occhi di penna di pavone, le foglie accartocciate disposte a ruota. Vi sono anche alcuni emblemi dei Manfredi signori di Faenza: il cosiddetto Salasso, formato da una serie di coltellini che servivano a prelevare il sangue, e un uccello dal lungo collo che a Faenza viene chiamato Astorre (astore), anche se in realtà assomiglia più a un airone, e associato generalmente al nome Astorgio o Astorre, ricorrente nella famiglia.

Accanto a queste decorazioni che potremmo chiamare normali ve ne sono però altre del tutto insolite, dovute a richieste e indicazioni precise da parte del committente. Talune sono veramente difficili e legate ad argomenti di filosofia dell’epoca, oppure nella loro stranezza sembrano indicare interessi esoterici, legati all’alchimia, che era una pratica molto diffusa e non certo estranea ai religiosi. Il tema più frequente sulle mattonelle è rappresentato da vasi di ogni genere e forma, dalle coppe alle brocche fino al teschio, che è il contenitore per eccellenza. Si tratta certamente di un omaggio al nome Vaselli, e dimostra che le mattonelle furono dipinte proprio per essere collocate nella sua cappella, e non semplicemente prelevate da una produzione comune e  utilizzate.  Uno di questi vasi è rotto, attraversato da una grossa crepa. Bizzarrìa del pittore, o precisa allusione alla fase nera del procedimento alchemico, quella in cui tutto va male, i vasi si rompono e l’alchimista si dispera, prima di recuperare coraggio ed energie e procedere alla realizzazione dell’opera? In realtà, con poco sforzo, gran parte delle mattonelle potrebbe essere interpretata in questa chiave. Gli animali terricoli, marini, d’aria e di fuoco (la salamandra) alludono ai quattro elementi che costituiscono il creato, il grande uccello che si innalza da un pozzo può essere la sublimazione, cioè quel procedimento per cui i solidi diventano vapore e salgono su per l’alambicco, per poi ricondensarsi nelle parti più fredde. E la lingua per mal dir parla, come sta scritto su una mattonella, frase curiosa se riferita alla chiesa, dove la parola è sacra e benefica, ma ben comprensibile se riferita all’alchimia, dove è vietato parlare chiaro e tutto deve essere espresso oscuramente e per emblemi. Il pittore maiolicaro deve avere avuto direttive precise, ed essere stato a stretto contatto con il committente e con un ambiente ben più colto e complicato di quello cui era abituato. Ha addirittura raffigurato Anteros, il piccolo dio dell’amore carnale vinto da Eros, l’amore spirituale, e legato a un albero spoglio, con una benda sugli occhi e le armi spezzate, secondo gli insegnamenti dei filosofi neo-platonici allora di moda. Il pavimento va dunque visto in un contesto che non è quello abituale della ceramica faentina. La bottega che ha partecipato all’impresa fa un salto di qualità, viene a contatto con una cultura superiore, sia dal punto di vista artistico che filosofico.

 

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