CASTELDURANTE (Urbania) nel Cinquecento

La piccola città marchigiana, situata sul fiume Metauro, acquistò l’attuale nome nel 1636, per volontà di papa Urbano VIII Barberini.  Trattando di un periodo anteriore a questa data, la chiameremo quindi col nome antico di Casteldurante. Qui la produzione ceramica fiorì  abbondante fin dal medioevo:  dal sottosuolo emergono molti frammenti, mentre negli archivi abbondano i nomi delle botteghe e dei ceramisti. E’ però soltanto con il secolo XVI che è possibile delinearne lo sviluppo, a partire dalla splendida coppa con lo stemma del Papa Giulio II, eseguita nel 1508 da un vasaio che si firma Zoan Maria. 


La coppa è un esemplare prezioso, e dimostra che, agli inizi del secolo, a Casteldurante c’era almeno un artigiano in  grado di eseguire, con straordinaria abilità, oggetti di forma elegante e decorati alla maniera moderna, con  grottesche e trofei. A lui si era rivolto il committente, un membro della famiglia bolognese Manzoli, il cui stemma compare in basso, sotto gli emblemi papali. Chi fosse poi Zoan Maria, a quale famiglia appartenesse, malgrado le tante ipotesi è difficile dirlo con certezza, anche perché il nome è molto comune: forse Giovan Maria di Mariano, allievo e genero di Federico Brandani [1], o Giovanni Maria Perusini, socio di Ottaviano Dolci tra il 1512 e il 1514[2]. Una sola altra opera viene generalmente riconosciuta  come sua, la coppa della collezione Hockemayer di Brema con tritone e fanciullo[3]. Sono infatti estremamente simili, in entrambi gli esemplari, le fisionomie dei fanciulli e il modo di dipingerli. Con questa eccezione, il repertorio che era andato via via stratificandosi attorno a Zoan Maria e alla sua bottega non è attualmente accettato da tutti [4]. Particolarmente suggestiva è l’ipotesi che gli appartenga una serie di coppe con le immagini idealizzate di uomini e donne illustri. Ne fa parte la “Carendina” del Metropolitan Museum di New York  [5], la cui grande qualità fa supporre una mano pittorica molto efficace.



[1] Negroni1985, p.17

[2] Balzani – Regni 2002 p.51-52

[3] Hockemayer collezione 1998, scheda n. 9 pp.122 e 220, redatta da J.V.G.Mallet

[4] Rackham1928,pp.435-445; 1929, pp.88-92.

[5] Rasmussen 1989 p.106-107.

 

Nel 1919 il nome di Casteldurante compare su un vaso da farmacia nel British Museum di Londra, assieme a quello della bottega di Sebastiano di Marforio. Un vaso gemello, ma privo di scritte, si trova nel Victoria and Albert Museum di Londra[1]. Il Raffaelli riferisce che fino al 1837 nella farmacia Purgotti di Cagli di vasi simili ce n’erano quattro, che furono poi portati a Parigi [2]. E' probabile che quelli dei musei londinesi Londra facciano parte dei quattro visti dal Raffaelli, mentre degli altri due si sono perse le tracce. Entrambi sono ornati a grottesche, e recano uno stemma anch’esso sconosciuto. 

E’ interessante osservare che allo stesso corredo appartiene anche una bottiglia un tempo nella collezione Beckerath[3], contrassegnata dallo stesso stemma ed emblema farmaceutico, con il nome del preparato medicinale tracciato in caratteri gotici entro un cartiglio elegantemente ripiegato alle estremità. E’ dunque ragionevole supporre che essa sia durantina e, con molte probabilità della bottega di Sebastiano, cui fu probabilmente commissionato l’intero corredo. La bottiglia è importante perché richiama a sua volta, nei modi e nella distribuzione decorativa, numerosi altri vasi da farmacia, bottiglie della stessa forma e albarelli. In essi, come nella bottiglia ex Beckerath, la scritta è tracciata in caratteri gotici entro cartigli ripiegati alle estremità, che dividono lo spazio in due parti: in quella superiore si trova l’emblema della farmacia (un gallo, un leone, una mano che stringe un ramoscello, etc), mentre in quella inferiore è un segno di appartenenza formato da un ovale cuoriforme sormontato dalla doppia croce, al cui interno si dispongono entro scomparti alcune  lettere. Questo conferma la tradizionale attribuzione della tipologia a Casteldurante. Anche la data 1520, che compare su una bottiglia conservata Museo internazionale delle ceramiche di Faenza [4], è compatibile con il corredo di riferimento.



[1] inv. MLA1855,12-1,59,  in Wilson 1987 n.117 p.80-81 ; inv. 1713-1855, in Rackham 1933 p.59 ; id 1940 n. 618.

[2] Raffaelli 1846, p.17

[3] Beckerath collezione 1913, n. 276. Un vaso anch’esso con lo stesso stemma di trova nel museo di Glasgow (Olding1982 n. 19)

[4] Cora, collezione, 1985 n. 321 p. 134.

 

Le grottesche sul vaso di Sebastiano di Marforio del British Museum datato 1519 e sul suo omologo del Victoria and Albert di Londra sono molto particolari. Appaiono infatti dipinte da una mano di notevole qualità, che ama i toni freddi della grisaglia ombreggiata in giallo; potrebbe essere lo stesso Sebastiano, oppure qualcuno da lui pagato per decorare i suoi vasi. E’ stata fatta l’ipotesi che possa trattarsi di un notissimo pittore di istoriati che viene generalmente chiamato “In Casteldurante Painter” [1] 

Il nome vero non ci è pervenuto, e il soprannome gli deriva dal fatto che  è solito scrivere in giallo, sul retro delle sue opere, il luogo e la data di esecuzione: ad esempio, In Casteldurante / 1525 [2]. Egli dipinge per lo più coppe su basso piede, e dalle date sui retri risulta sicuramente attivo dal 1524 al 1526[3]. Predilige quali fonti le stampe raffaellesche del Raimondi, che traspone sulla maiolica con una certa rigidezza e con un fare un po’ incerto, ma anche con un forte senso della monumentalità. 

Le stampe costituiscono il principale strumento di cui ogni maiolicaro si serve per fare istoriati. Contrariamente alle grandi opere pittoriche, egli è in grado di  averne a disposizione un certo numero, e di ricavare gli spolveri mediante i quali trasferisce le immagini sulla superficie maiolicata, creando opere aggiornate e in sintonia col gusto contemporaneo. Vi trova inoltre le iconografie adatte a soddisfare le richieste dei committenti più sofisticati. La fama di Casteldurante è sempre stata legata all’istoriato, soprattutto perché un tempo si credeva che Nicola da Urbino vi fosse nato e vi avesse trascorso la sua prima fase .

In realtà l’istoriato Durantino non conta molti esemplari sicuri, rispetto alla fama di cui gode, malgrado provenissero da  Casteldurante alcuni dei maggiori maestri, attivi però altrove[4].



[1] Gresta 1995, pp.33-53.

[2] Mallet 1970, pp.340-341

[3] Per un repertorio delle opere datate, v. Ballardini 1933 nn. 164-166 e 184-189

[4] A Urbino troviamo Guido e Francesco, entrambi chiamati  Durantini per le loro origini; a Pesaro e Venezia Baldantonio La moli, detto “il solingo Durantino”.  Alla bottega di Guido, che più tardi prese il nome di Fontana,  si applica probabilmente l’elogio della pittura durantina fatto dal Vasari.  

 

Di recente Timothy Wilson ha prodotto un elenco delle maioliche recanti il nome della città[1], uno fra i pochi modi per essere sicuri della loro provenienza. Fra queste, escludendo le opere dell’ “In Casteldurante Painter”, solo quattro recano una decorazione istoriata, e sono tutte comprese fra il 1530 e il 1560: un grande piatto nell’Art Museum della Princeton University, datato 1536, con la raffigurazione di Cesare che riceve la testa di Pompeo (sul retro un’iscrizione di derivazione petrarchesca spiega il senso della scena); un piatto con Lucrezia datato 1549 e monogrammato C G , e un frammento di coppa con Caino e Abele, entrambi all’Ermitage di San Pietroburgo; una crespina con Giuditta nel George Gardiner Museum of Ceramic Art di Toronto.

A parte l’ultimo esemplare, che, specie nella forma e nella decorazione sul retro, richiama molto il gruppo “Negroponte” di cui parleremo fra poco, gli altri non si discostano molto dalla maniera urbinate e, come giustamente dice il Wilson riferendosi al primo di essi, non ci fosse stato il nome di Casteldurante sul retro, sarebbero probabilmente stati attribuiti a Urbino. Il problema è dunque cruciale poiché, generalmente parlando, solo un numero piccolissimo di maioliche reca il nome della località di esecuzione. Di conseguenza, l’attribuzione si può fare valutando i modi e le assonanze stilistiche.  Purtroppo, fra Casteldurante e Urbino, gli scambi di artefici e di merci sono tali da non consentire differenziazioni. Diventa dunque difficile partire dagli esemplari sicuri per arrivare, come auspica il Wilson, a uno studio organico sull’argomento, anche se in realtà c’è poco altro da fare. 

Il definitivo distacco da Casteldurante di Nicola, ormai identificato con Nicola di Gabriele Sbraghe da Urbino[2], e la restituzione del “Pellipario” alla sua originaria funzione di pellicciaio nonché padre di Guido Fontana, hanno impoverito in maniera drastica l’istoriato Durantino, e gli hanno tolto molti dei suoi vanti.

Oltre all’istoriato, la tradizionale attribuzione durantina vacilla anche per un’altra vasta categoria ceramica, quella delle  “Belle”.



[1] Wilson 2002 pp. 131-138

[2] Negroni 1985. Nicola da Urbino era confuso un tempo con Nicolò “pellipario” Schippe, padre di Guido Durantino, a causa della contiguità dei nomi e del fatto che aveva dipinto un piatto nella bottega di Guido. In realtà Nicolò Schippe faceva il pellicciaio, come dice appunto il suo soprannome. Tuttavia per quasi un secolo Nicola da Urbino fu chiamato dagli storici della ceramica  Nicolò “Pellipario”. 

 


Si tratta di immagini femminili, rappresentate a mezzo busto, di profilo o di fronte ( più raramente maschili o di coppie). Nelle Marche il supporto è costituito per lo più da coppe su piede basso e con la parete leggermente incurvata. Dietro di loro si svolge un cartiglio su cui è scritto il nome, seguito dall’appellativo “Bella”, talvolta abbreviato nella “B” iniziale[1]. Non sono ritratti veri e propri: i ceramisti disponevano di alcuni modelli che utilizzavano ripetutamente, cambiando il nome e i particolari dell’abbigliamento. La probabile funzione di queste coppe era di omaggio; la donna cui il dono era destinato veniva così lusingata. Se il nome coincideva con quello di un’eroina famosa, l’immagine era generalmente arricchita con gli attributi adeguati: il pugnale per Lucrezia, le armi per Marfisa o Clorinda, il vasetto dell’unguento profumato per Maddalena, e così via. 

Le “Belle” come genere sono diffuse un po’ ovunque nella maiolica rinascimentale, ma acquistano un risalto particolare nel ducato di Urbino. Qui iniziano all’incirca verso il 1520[2] continuando poi a lungo[3]. Un tempo molte di esse venivano associate a Nicola o alla sua cerchia. Da qui l’ attribuzione preferenziale a Casteldurante, che ancora le accompagna nelle catalogazioni [4]. Ma, se a Casteldurante la loro presenza è sicura, testimoniata com’è da un certo numero di frammenti di scavo, essa però non assume nel contesto un particolare rilievo. E’ ragionevole pensare che le “Belle” rientrassero nella produzione di tutti i principali centri ceramici del ducato, soprattutto di Pesaro e Urbino. Non escluderemmo nemmeno Gubbio, dove Maestro Giorgio Andreoli impiegava decoratori provenienti dagli altri centri del ducato, e dove furono interamente, a nostro avviso, eseguiti gli esemplari arricchiti col lustro.


[1] Possono esserci naturalmente varianti o aggiunte, come “Diva”, “Bella pulita”, o altre.

[2] Il più antico esemplare datato è infatti la Faustina dei Musei civici di Pesaro, datata 1522 (Ballardini 1933 n. 121 tav. XIV).

[3] Sono datate “1546” due coppe rispettivamente nel Kunstgewerbemuseum der Stadt di Colonia e nel Victoria and Albert di Londra (in Klesse 1966 n.290 p.157, e in Rackham 1940, n. 590).  Inoltre al Victoria and Albert è anche una coppa con immagine maschile , “Francesco D Lorenzo”, datata “1559” (ib. n.592)

[4] Rackham.1940, nn. 552-558.  Polidori 1956, 2, pp.57-70; Liverani 1958 p.36

 

Le “Belle” appartengono a una categoria più ampia di immagini celebrative su maiolica, che talvolta rappresentano eroi ed eroine dell’antichità o personaggi illustri della storia e della leggenda.  Alcuni esemplari di pregio eccezionale erano in passato assegnati a Nicola, o più di recente a Giovanni Maria: fra essi spicca lo Scanderbeg del Musée des arts décoratifs di Lione.

 



Procedendo verso la metà del secolo, la produzione durantina sembra orientarsi soprattutto sul vasellame d’uso e su quello farmaceutico. Quest’ultimo, come attestano i documenti di archivio, fu prodotto in grandi quantità dalle botteghe dei Picchi, di Ubaldo della Murcia, di Simone da Colonnello e dei Superchina. Era destinato soprattutto all’esportazione, specie verso la Sicilia [1]. Di questa produzione, che dovette essere enorme, rimangono numerose testimonianze nelle collezioni private e museali: albarelli, vasi a palla e a balaustra sono ornati con trofei e grottesche entro scomparti, a vivaci colori o in grisaille, su fondi di colore alternato giallo, blu, verde. Meno spesso, recano una decorazione istoriata. Entro i cartigli compare talvolta il nome della città, mentre le date si aggirano attorno alla metà del secolo. I vasi hanno un caratteristico profilo ondulato, con lieve restringimento centrale, mentre gli albarelli sono di varie dimensioni e forme, alti e stretti, più bassi e allargati, oppure con accentuata rastremazione centrale

Un mercante genovese abitante a Palermo, Andrea Boerio, commissionò ai Picchi nel 1562 ben quattrocento vasi da farmacia, a proposito dei quali sorse anche una questione giudiziaria per un ritardo nella consegna[2]. Il vasellame proveniente da questa ordinazione è ancora riconoscibile per la presenza delle armi del  Boerio, un bue davanti a una torre sormontata da sette stelle d’oro, il tutto attraversato da una banda rossa[3]. Su un albarello della collezione Bayer è scritto il nome di Luca Picchi[4], che compare anche su un esemplare in collezione privata. Un vaso del museo internazionale delle ceramiche di Faenza, datato 1562, è invece firmato da “Mastro Simono”, probabilmente Simone da Colonnello[5].



[1] Ragona 1976

[2] Leonardi 1982 p. 164.

[3] Lo stemma è stato identificato da Timothy Wilson nel convegno sui Della Rovere tenuto a Urbania nel 1999, rendendo così possibile denominare correttamente questo famoso corredo. Al Wilson si deve anche la lettura, su uno degli albarelli così stemmati, oggi nella collezione Bayer, e su un altro in collezione privata, del nome di Ludovico Picchi, il più anziano dei due fratelli operanti nella bottega (Wilson 2002 p. 143). dei Picchi si hanno notizie fin dal 1498, e i due fratelli Ludovico (Luca ?) ed Angelo dirigono la bottega a partire dal 1540 circa fino a poco dopo il 1563, quando si trasferiscono a Roma

[4] Wilson 2002 pp.142-143

[5] inv. 24875. Simone da Colonnello, è probabilmente da identificarsi con Simone di Pietro Francesco Marini, che resse a lungo la bottega ereditata dal padre, fino alla morte, avvenuta nel 1580 (Leonardi 1982 p. 164)

 

Su parte di questo vasellame farmaceutico è riconoscibile la maniera di un pittore di istoriati chiamato convenzionalmente “Andrea da Negroponte”. Il nome, che non ha finora trovato riscontro nella documentazione d’archivio, è scritto dietro una coppa baccellata del Museo Civico Medievale di Arezzo, su cui è rappresentata la gara tra Apollo e Marsia. Esso è posto subito dopo l’argomento, cioè la spiegazione della scena, e questo fa pensare più a un pittore che a un committente Non ricorre però in alcuna altra opera, anche se quelle che gli sono attribuite sulla base del suo inconfondibile stile sono moltissime, databili all’incirca fra il 1550 e il 1565 [1]

Il pittore dipinge con grande disinvoltura, anche se in maniera piuttosto approssimata: esattamente l’opposto del freddo classicismo dell’ “In Casteldurante Painter”, cui si contrappone anche per la gamma dei colori, brillante e aranciata. Vivace e comunicativo, le sue figure bamboleggianti non rispecchiano certo gli ideali figurativi classici, ma sono estremamente efficaci. Oltre a innumerevoli coppe e piatti istoriati, Andrea è autore anche di un servizio vero e proprio, contrassegnato da uno stemma non identificato accompagnato dal motto “SAPIENS DOMINABITUR ASTRIS”, tratto da uno degli “emblemata” dell’Alciati, alcuni esemplari del quale sono datati “1551”[2]. L’eccezionale vastità del repertorio, il fatto che il nome ricorra una sola volta  e che non se ne trovi traccia nei documenti di archivio hanno contribuito a creare un certo scetticismo attorno alla figura e alla eventuale bottega del Negroponte[3]. Di sicuro si tratta di un pittore che lavorò nella bottega Picchi, e il nome continua comunque ad essere utilizzato in maniera convenzionale, per identificare con immediatezza la sua particolare personalità pittorica


[1] Cfr. Ad esempio Lessmann 1979 nn.102-121 e Fuchs nn.217-231

[2] Alciati, Andrea,  Emblemata, Venezia 1534  (“Astra regunt homines, sapiens dominabitur astris, et poterit notis cautior esse malis”

[3] Wilson 2002 p. 136-7

 

Fra le numerose tipologie decorative un tempo ritenute esclusive di Casteldurante, oggi estese agli altri centri del Ducato, spicca l’ornato a trofei. Anch’esso figura in versione accuratissima e un po’ fredda nella prima metà del secolo, mentre in seguito se ne afferma una  più sbrigativa, in cui scudi, armature, faretre e tamburi sono velocemente delineati in marrone su un fondo blu solcato a sgraffio da nastri ricurvi. Li troviamo, ad esempio, attorno alla tesa di numerosi piattelli che spesso recano al centro amorini in vari atteggiamenti su un fondo giallo, affiancati talvolta da arbusti privi di foglie. Nei reperti di scavo durantini questi amorini si trovano spesso, e questo consente di attribuire con certezza i piattelli alla produzione locale. Anche i trofei marroni su fondo blu compaiono nei frammenti di scavo; tuttavia, il fatto che siano stati trovati con caratteristiche simili nel sottosuolo di Pesaro[1] fa pensare che  siano diffusi anche in altri centri del ducato. Viene comunque assegnata a Casteldurante l’enorme quantità di vasellame da farmacia il cui schema decorativo consiste in trofei marroni rossicci disseminati sul fondo blu, entro i quali è risparmiata una zona a fondo giallo su cui è dipinto l’emblema. Questa tipologia supera la fine del secolo, e continua ad essere prodotta anche nel successivo, variando gli emblemi a seconda della committenza e assumendo un carattere sempre più corsivo. Esemplare a questo proposito è il  corredo con l’Angelo, già secentesco, che reca il cartiglio nella parte posteriore delle brocche, per facilitare la presa allo speziale. In seguito, la maiolica sembra allinearsi con la generale decadenza economica e politica della città, particolarmente accentuata dopo la morte dell’ultimo duca nel 1631e il ritorno del Ducato alla Chiesa. 

Si  discosta da questo clima Ippolito Rombaldoni (1619-’79), autore di istoriati di qualità per i quali attinge spesso a incisioni desunte da pittori famosi dell’epoca, di cui riproduce il caratteristico tratteggio grafico[2].


[1] Berardi 1984 fig.89 p 297.

[2] Cleri-Paoli 1992 p.124

 

Si discosta da questo clima Ippolito Rombaldoni (1619-’79), autore di istoriati di qualità per i quali attinge spesso a incisioni desunte da pittori famosi dell’epoca, di cui riproduce il caratteristico tratteggio grafico[1]. Resta da menzionare, legata alla produzione durantina,  l’opera dei vasai emigrati a Roma, fra cui Diomede Durante e il decoratore Paolo Savino, autori di vasi da farmacia biansati e di albarelli che uniscono l’ornato a foglie blu con una versione rapida e frantumata delle grottesche.


[1] Cleri-Paoli 1992 p.124

 

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