Umberto Piombino scultore

UMBERTO PIOMBINO SCULTORE

 

       Per chi vive in pianura e gravita verso l’Adriatico e ha il suo riferimento marino  in Rimini - larghe distese di sabbia bionda, fondali bassi, spiagge popolari per mamme e bambini, gelati e bandiere, per così dire – Albisola è un nome ricco di suggestione. E’ il mare dall’altra parte, più segreto, un’idea di rocce a picco, di spiagge strette coi binari che ti corrono addosso, un profumo di basilico e pitosforo che aleggia nell’aria.

Un luogo un po’ magico, insomma, specie per chi lo conosce attraverso le cronache di 40 e più anni fa, ricordi che a leggerli, anche sfrondandoli un po’ dall’inevitabile effetto nostalgia, fanno nascere un gran desiderio di esserci stati, al Pozzo della Garitta e aver conosciuto il Bianco e visto lavorare il torniante Pinetto “l’uomo giusto, diritto, che sapeva tutto della vita” e la Lina, che dipingeva così bene il “vecchio Savona”.

 

Qualcosa di quel mondo così particolare è rimasto imprigionato nelle ceramiche di Piombino, forse una certa aria affabile, o quella semplicità di accenti che è così difficile da raggiungere ma che in Italia non sempre viene apprezzata come dovrebbe, perché la leggerezza è spesso scambiata per inconsistenza e l’ironia per superficialità.

 

Il periodo in cui Piombino inizia la sua attività è fra i più ricchi di fermenti nella storia della ceramica italiana, anni in cui si verificano un po’ dappertutto cambiamenti epocali.

Ad Albisola la sperimentazione e il gusto della rottura con la tradizione risalivano agli anni Venti, ai tempi delle “aeroceramiche” e degli “aerovasi” di Tullio e dei suoi amici futuristi, ma quelli facevano ormai parte della storia quando, nel 1954 arrivò ad Albisola il Gruppo Cobra con  Corbeille, Asger Jorn e Karel Appel, portando con sé un nuovo linguaggio, “barbaro” e brutalmente espressivo.

 

Nel frattempo Faenza viveva una stagione altrettanto intensa. Albert Diato vi giunse nel 1954 già aureolato di leggenda, perché aveva lavorato con Picasso a Vallauris, e contagiò tutti i più giovani con la sua passione per il gres, un materiale piuttosto inconsueto nella patria della maiolica. Carlo Zauli, Nanni Valentini e Giuseppe Spagnulo furono fra i primi ad abbandonare senza rimpianti smalti policromi e decorazione, per aderire ad un neoprimitivismo formale da cui sarebbero transitati verso l’informale e il concettuale.    

 

Anche nel resto d’Italia la situazione era in pieno movimento.

Salvatore Meli e Guido Gambone, tanto per fare qualche nome, adottarono il gres privo di rivestimenti e la loro plastica si fece più grandiosa ed essenziale, Nino Caruso coniugò gres e forme seriali, mentre in Veneto anche Pompeo Pianezzola e, in seguito, Giuseppe Lucetti abbandonarono il figurativo, per iniziare una ricerca espressiva legata unicamente alla materia usata, terra refrattaria o porcellana che fosse.

 

A Roma, poi, c’era Leoncillo che stava esaurendo il suo periodo “picassiano” - anche se il Picasso a cui si riferiva lui era unicamente il pittore, non quello che, nell’atelier Madoura  dei Ramié, giocava genialmente con la ceramica trasformando un treppiede nel naso di un fauno e la curva di un orcio nelle natiche rotonde delle sue floride Stagioni. Chiusa la stagione del realismo d’impronta sociale dei Minatori, e quello più quotidiano diDattilografa e Centralinista, Leoncillo inaugurava infatti il periodo di  Racconto d’inverno  e dei San Sebastiano in cui la materia – una terraglia bianca e grigia agglomerata e tagliata con violenza - acquistava un tormentato spessore esistenziale.

 

 Si era agli inizi degli anni ’60 e, nella spaccatura netta che contrappose gli informali e i concettuali ai realisti, furono i primi ad avere miglior stampa e a guadagnarsi il consenso della critica. Ci voleva un gran coraggio, in quegli anni, e parecchio ottimismo, a scegliere non solo la strada del figurativo ma a dedicarsi addirittura all’arte sacra.

Certo, c’era Manzù ma la sua era una scelta “alta” di toni e materiali, di risonanza epica, bronzea, per l’appunto. Fra gli scultori in ceramica Angelo Biancini, allora fra i più affermati, dedicò ai temi religiosi gran parte della sua produzione, senza staccarsi dal realismo, ma pagò duramente, con la progressiva emarginazione dai maggiori circuiti artistici,  questa duplice scelta di campo.

 

In tempi così agitati e ricchi di provocazioni culturali, impressiona, da parte di Piombino, questa capacità di scegliere immediatamente la propria strada, e di percorrerla senza pentimenti e senza farsi deviare da influssi esterni. Se non l’unico, ad esempio, fu certo uno dei pochissimi in Italia a non farsi impressionare dalla ceramica di  Picasso.

Già il fatto che, pur potendo ispirarsi alle opere che creavano, letteralmente sotto i suoi occhi, Agenore Fabbri o anche Lucio Fontana – che pure, a suo dire, era l’unico artista moderno che l’avesse interessato – Piombino si sia scelto per maestra una figulinaia, la dice lunga sulla considerazione che aveva dell’arte contemporanea, ma ancor più sulla sua capacità di essere libero da ogni tipo di condizionamento.

 

Il racconto della sua scoperta della ceramica, poi, nel laboratorio di Pozzo Garitta dove viene portato da Emanuele Luzzatti, ha cadenze da favola, specie per la parte che riguarda   Beatrice Maricone Schiappapietra che abitava sopra la casa del Bianco, e  che Piombino, molti anni più tardi, immortalerà nella statua della Figulinaia, ora nella piazza del Comune.

Fu una vera folgorazione, secondo le testimonianze di chi c’era, e possiamo immaginarcelo benissimo, a questo punto, mentre guarda incantato per ore la donna che modella una figurina da presepe dopo l’altra, come uno che ha finalmente trovato la sua strada e non intende farsi distrarre da altro. Ed è così preso dalle caratteristiche dal nuovo materiale da dimenticare completamente lo stile scattante e dinamico che caratterizzava le sue precedenti creazioni – peraltro di tutto rispetto - in fil di ferro e talvolta stranamente simili ai disegni di Klee per il Candide.

 

Fin dalle prime opere lo stile di Piombino è già nettamente delineato, e col tempo non cambierà sostanzialmente. Soprattutto i suoi personaggi acquisiscono immediatamente una fisionomia ben identificabile, perché hanno tutti lo stesso volto, arrotondato e dal profilo “greco”, con il naso che prolunga la linea della fronte, e negli occhi - due forellini ben distanziati – un identico sguardo, sempre un po’ attonito e trasognato. Le storie che li coinvolgono, fatti del Vangelo o scene di vita quotidiana, vengono narrate sempre coi toni affabili e distesi di una conversazione  amichevole.

 

Nell’elaborare questi “teatrini”, ricchissimi di piccole notazioni affettuose in cui non si coglie mai niente di superfluo, Piombino mostra una tale sciolta naturalezza che forse si potrebbe dire di lui quello che Bontempelli diceva di Arturo Martini, e cioè che “pensa in ceramica”. Colpisce in lui questo rispetto per il mestiere che si manifesta nella esecuzione accurata di ogni particolare e che gli impedisce di ripetersi. Negli scacchi, ad esempio, lo stile cambia con il tema prescelto, per cui mentre nella serie con Andrea Doria, Kheir Ed Dir, saraceni e vascelli l’affinità con Luzzatti è evidente (e forse suggerita dal soggetto stesso), in quella dedicata a Napoleone e Orazio Nelson si legge più di una affinità con le bottiglie in terraglia della Robj di Parigi che furoreggiarono negli anni Trenta con i loro buffi personaggi tondeggianti – lo Scozzese, il Turco con scimitarra, il giocatore di golf, e anche Napoleone, per l’appunto. 

 

C’è stato un lungo periodo in cui, in Europa come negli U.S.A., il figurativo è stato considerato fuori corso, qualcosa di ormai superato e leggermente imbarazzante, soprattutto privo di spessore intellettuale. Negli anni Settanta  Hilton Kramer, il critico d’arte del “New York Times”, espresse assai bene questa posizione, quando scrisse che la vera pecca del realismo era la “mancanza di una convincente teoria” a suo favore. In altre parole, senza il supporto “fondamentale” di una riferimento esterno – ideologico, antropologico o psicanalitico che fosse - a spiegarne il significato “vero”, nessuno poteva azzardarsi ad apprezzare un’opera d’arte. Non sembra proprio, a giudicare dalla sua vita, che Piombino si preoccupasse di piacere ai critici di professione o di modificare il suo linguaggio per andare incontro al gusto di qualche ArteFiera, ma non c’è dubbio che questo tipo di concezione abbia condizionato il giudizio sulla attività sua e di altri che, come lui, in quegli anni hanno continuato su strade considerate ormai obsolete.

 

Col passare degli anni, in ogni modo, alcuni scultori in ceramica si stancarono di tutta quella materia così nuda (a volte anche cruda, nelle interpretazioni più estreme) e spoglia. Salvatore Meli, ad esempio, si volse di nuovo alla maiolica e a quel mondo mediterraneo, fatto di forme allegramente contaminate che gli era più congeniale e lo stesso Valentini, a cui si devono certo le più profonde interpretazioni dell’intendere “la materia come poetica”, nella sua ultimissima serie dedicata all’ Angelo si aprì cautamente al colore e al senso della sacralità.

Nel frattempo, comunque, era arrivato il raku e si era portato dietro i più giovani, amerikani o neo-zen che fossero. Ma questa è chiaramente un’altra storia.

 

In tutto questo andare e venire dal figurativo all’astratto, all’arte spaziale e nucleare, al concettuale, all’arte povera, passando per l’informale che coinvolge un po’ tutti, Piombino resta serenamente fedele al suo repertorio. Continua a modellare i suoi santi, “per fare delle brave persone”, come dice, del tutto indifferente al fatto che il suo tipo di attività lo possa confinare entro i limiti di una produzione “di nicchia”.

 

Eppure la piccola plastica è un genere che vanta una storia illustre ed appare praticato da sempre, in tutte le culture. Gli esempi sono ben noti, si va dai modellini egizi a quelli precolombiani, senza dimenticare la ricchissima tradizione cinese dal periodo Han fino ai Tang, per limitarsi ai più antichi. In tempi più recenti, è possibile individuare una precisa tradizione italiana che nasce nel ‘700 e arriva fino alle statuine Lenci - tradizione in cui ben s’inserisce Piombino – fatta  di esprit de finesse, di ironia sapientemente dissimulata sotto toni affabili e modi corsivi. In mezzo si colloca la copiosa produzione Liberty e déco, che culminò con l’affermazione di Francesco Nonni e Anselmo Bucci all’Expò parigina del 1925 con un Corteo orientale di algida eleganza in cui 25 statuette di schiavi mori, con levrieri e leopardi, scortavano un’odalisca seduta su un elefante dalla gualdrappa sontuosamente decorata.

 

 L’interesse della critica per questo tipo di produzione sembrò però esaurirsi con gli anni Quaranta. Per constatarlo basta ripercorrere la storia del Concorso faentino, che allora raccoglieva il meglio della produzione nazionale. Gli ultimi a ricevere dei riconoscimenti furono Giuseppe Mazzullo, che vinse il  premio “Faenza” nel 1942,  e poi Emilio Casadio, segnalato nel ’46, per la Leggenda di Natale. una straordinaria cista traforata, dalla fitta decorazione plasticata disposta su fasce sovrapposte.

 

 Nel dopoguerra il genere era ormai in netto declino. Tanto più, quindi, dobbiamo essere grati a Piombino per i suoi teatrini sacri di assoluta delizia, popolati di santi dall’aria mite, con le aureole che sembrano frittatine, e le scene scandite da tanti piccoli particolari che fanno intuire un’attenzione costante e un occhio attentissimo ai fatti minimali della vita. Valga per tutti quel Gesù bambino che aiuta la madre a dipanare la lana, seduto su uno sgabello che s’inclina leggermente in avanti perché lui è troppo piccolo e i piedini faticano a toccare il pavimento. Sembra un Vangelo apocrifo, con l’infanzia di Gesù puntualmente descritta, fra arredi domestici di sublime banalità, in una casa che si suppone situata fra Genova e Savona, vista la costante presenza di ceramiche liguri.

 

Non si può non notare, di passaggio, il ruolo da protagonista che in queste storie recita un S. Giuseppe, assai più giovane di quello della tradizione, tanto che ci si potrebbe azzardare a supporre un sentimento di affinità da parte di Piombino verso un personaggio schivo, che appare sempre un po’ defilato nelle sacre rappresentazione di tutti i tempi.

 

A proposito delle sue creazioni è certo lecito citare – ed è stato fatto puntualmente – opere di carattere eterogeneo. Presepi, ovviamente, e poi bodegònes sudamericani, marionette Colla, modellini egizi, Tanagre ellenistiche, case di bambola mitteleuropee, ex-voto popolari, ed altro ancora ma Piombino è ben altra cosa. Forse, i soli “teatrini” avvicinabili ai suoi sono quelli di Melotti, un altro che faceva le sculture col fil di ferro, e forse non è casuale, perché c’è la leggerezza alla base delle opere di entrambi, oltre a un’identica sensibilità nell’uso della terracotta.

 

Quanto ai presepi tradizionali in cotto, è chiaro che si tratta solo di somiglianze assai superficiali, anche mettendo da parte ogni considerazione sulle relative qualità formali e d’invenzione. Senza nulla togliere alla tradizione di un genere che in Liguria ha una tradizione risalente agli inizi dell’Ottocento, c’è ben poco in comune, a ben vedere, fra quel mondo, brulicante e dispersivo che moltiplica all’infinito le situazioni e i personaggi, e l’interpretazione raccolta e concentrata caratteristica delle storie di Piombino. Per tacere, poi, della ripetitività delle forme, dovuta all’uso di stampi, che è tipica dei presepi e delle immagini della devozione popolari.

 

Sono ben altre le suggestioni visibili in filigrana nelle sue opere. Più che di derivazioni, però, si tratta di rimandi, echi leggeri: la posa di un angelo che richiama le Figlie di Loth di Carrà, le scritte tracciate a mano sui bordo con un’ accuratezza che ricorda il paziente corsivo dei poemi di William Blake, i visi tutti simili fra loro e quell’aria candida di leggenda che circola anche nelle Storie di Teodolinda a Monza. Verrebbe persino da spingersi fino alla predella d’Urbino di Paolo Uccello, in cui si ritrova, pare, lo stesso gusto per i dettagli in l’ambiente più indicato che costruito, addirittura le stesse faccette compunte, e l’identico tono fiabesco e fuori del tempo, capace di  eliminare ogni asprezza e ogni tono tragico della storia narrata, per quanto atroce possa essere.

 

Non sembri troppo fuori luogo il paragone coi dipinti, perché Piombino non solo mostra quell’attenzione al particolare minuto che si afferma col gotico e trionfa nella pittura italiana fino al primo Quattrocento, ma soprattutto usa il colore più da pittore che da ceramista, giostrando abilmente fra biscotto, smalti lucidi e mat, ed eliminando le stesure piatte a favore dei toni sfumati.

 

L’analisi dei “teatrini” – che rappresentano comunque la parte più nota, ed anche la più cospicua, della sua attività – non deve comunque farci dimenticare che Piombino fu scultore capace di cimentarsi anche in opere di grande dimensione e di tema drammatico. In queste occasioni il suo stile non cambia, ma s assumere le cadenze semplici e solenni del romanico, come appare nella Deposizione, che non sfigurerebbe in una pieve del XII secolo, mentre il pannello di Santa Maria della Concordia, con i borghigiani che si azzuffano ai piedi della Vergine,  richiama irresistibilmente certe figurine di portali medievali in bronzo.

 

Una simile capacità di rappresentare con efficacia i temi religiosi, evitando qualunque retorica, si può ritrovare in diverse opere di Biancini, che però aveva un linguaggio più sincopato, un ritmo spezzato che si accompagnava spesso ad un modellato nervoso ed aguzzo.  Più vicino a Piombino appare piuttosto Arturo Martini, con la sua plastica più morbida e stilizzata e la trasognata dolcezza che anima alcuni suoi personaggi, come la Moglie del marinaio, affacciata alla finestra col suo bambino in grembo.

 

In realtà, per quanto si possano trovare assonanze, Piombino rappresenta pur sempre un episodio del tutto singolare nella ceramica del Novecento italiano. Forse l’unica che gli si possa veramente accostare è Margit Kovacs che negli stessi anni, a Budapest, s’inventava un modo sorridente e quotidiano di raccontare il sacro, arricchendolo di piccole notazioni argute.

A lei, però, hanno dedicato un museo, in Ungheria.

 

Adesso che ormai possiamo ammettere che non tutto quello che si è prodotto in nome del concettuale e dell’informale aveva uno straordinario spessore espressivo e che essere aniconici non vuol dire automaticamente essere profondi, forse siamo finalmente in grado di apprezzare fino in fondo l’arte di Piombino e coglierne tutto il valore.

 

Anche negli U.S.A., dove il materico-concettuale alla Peter Voulkos ha dominato a lungo in campo ceramico, si afferma sempre più il figurativo, declinato in molti modi diversi. Certo, da due eredi della pop e della funk art come Robert Arneson e Tony Natsoulas – tanto per citarne un paio  fra i più noti - non ci si può aspettare la grazia un po’ sorniona di Piombino, ed in effetti entrambi tendono ad accentuare il lato caricaturale della rappresentazione, adottando una gamma smagliante di colori luccicanti e forzando un  po’ i toni, eppure l’attenzione minuziosa agli abiti e agli accessori dei loro personaggi è la medesima e nessuno si sogna di bollare come “figurine” le loro opere.  In fondo, si sa, è sempre la geografia a fare la storia.

Se fosse vissuto in California, adesso Piombino sarebbe certo considerato un autorevole esponente della Narrative art e giudicato di assoluta attualità.

 

   Louis Cane, partito dagli intellettualissimi rigori formali di Supports/Surfaces, ha presentato qualche anno fa, al Museo di Faenza, una serie di figure di terracotta e maiolica, per lo più ragazze sull’altalena, neonati in carrozzina, coppie sedute su panchine, pupattole vestite come dame seicentesche uscite dalas Meninas. Teatrini, in buona sostanza, nonostante l’ironia un po’ blasè che li pervadeva e il sapiente gioco, assai cerebrale, di citazioni/contaminazioni.

E se lo schivo, l’appartato Piombino avesse visto più avanti di tutti?

 

                                                                                                          Maria Grazia Morganti

 

Bologna, novembre 2002

 

(testo pubblicato nel catalogo della mostra Piombino scultore, Genova, Palazzo ducale, 2002)

 

 



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