Il Raku e la cerimonia del Te'

 

Morganti Maria Grazia.

 

Ci sono, nel mondo dell’arte, tecniche e forme espressive la cui importanza non può essere compresa se ci si limita alla descrizione del fenomeno in sé ma per le quali occorre prendere in esame un contesto culturale più ampio. In questo senso un esempio tipico è rappresentato dal raku che possiamo considerare come il frutto di più circostanze contemporanee, legate alla storia del Giappone, all’affermarsi dello zen, ad una particolare concezione del rapporto fra natura ed arte che affonda le sue radici nello shinto e, naturalmente alla cerimonia del tè come venne codificata dal grande maestro  Sen Rikyu alla metà del XVI secolo.

In questa epoca il Giappone attraversa uno dei periodi più turbolenti della sua storia che vede indebolirsi l’autorità degli ultimi shogun del casato degli Ashikaga sotto la pressione delle ribellioni dei nobili che porteranno il suo territorio a frammentarsi in una serie di staterelli.

In questi stessi anni si colloca anche il primo contatto col mondo occidentale. Nel 1542, infatti, una nave mercantile portoghese diretta a Macao s’incaglia sulle coste nipponiche e già nel 1545 gli scambi commerciali fra Portogallo e Giappone sono ben avviati. Fra le merci di provenienza occidentale più apprezzate, troviamo i fucili il cui utilizzo da parte dei capi militari più spregiudicati, porterà comunque all’unificazione del Giappone.

I protagonisti di questa epopea militare saranno prima il nobile samurai Oda Nobunaga e, alla sua morte, il suo ex- portatore di sandali ed abilissimo luogotenente Toyotomi Hideyoshi. Entrambi, come vedremo, giocheranno un ruolo importante nella storia del raku e della cerimonia del tè, da loro utilizzata anche come mezzo diplomatico per ricevere i capi militari in guerra.

Il buddismo zen era stato introdotto dalla Cina durante il periodo Kamakura, nel 1215, e si era affermato progressivamente presso la casta militare dei samurai, acquistando un’enorme importanza ai tempi dello shogunato degli Ashikaga, in epoca Muromachi (1333-1573).

Con lo zen si modificano radicalmente i rituali di corte, l’arte, l’architettura, le arti marziali ed in genere la concezione della vita e dell’etica giapponesi. E’ allo zen che vanno ricondotti l’arte del tiro con l’arco e il maneggio della spada, l’ikebana, e, soprattutto, la cerimonia del tè che riassume in sé i concetti fondamentali dell’etica e dell’estetica zen.

Okakura Kakuzo - che nei primi anni del ‘900 scrisse Il libro del tè per spiegare il significato della cerimonia ad un pubblico occidentale ancora ignaro - parla del Teismo come di una sorta di Taoismo travestito che è penetrato profondamente nella vita dei giapponesi di ogni rango sociale, influenzando le abitudini, l’abbigliamento, il linguaggio, la cucina, l’arredamento delle abitazioni ed anche la struttura dei giardini.

La codificazione della cerimonia del tè risale al XVI secolo e si deve soprattutto a Sen Rikyu (1522-91) che perfezionò il rituale elaborato del suo maestro Takeno Jo o, accentuandone la ricerca di semplicità formale. Così facendo, Sen Rikyu modifica anche la sensibilità estetica dei suoi tempi perchè allo yugen (la coscienza della bellezza e della sua transitorietà) e al sabi (l’apprezzamento di tutto ciò che è consunto e presenta le tracce del passaggio degli anni), affianca il concetto di wabi, l’amore per l’incompiuto e l’imperfetto, cui si accompagna la ricerca di assoluta semplicità.

E la ceramica raku, come vedremo, contiene tutti questi elementi, incarnando perfettamente il senso del wabi-cha (la cerimonia del tè improntata a semplicità e mancanza di perfezione formale messa a punto da Sen Rikyu) secondo il pensiero già espresso da Kenko, un monaco buddista del XIV sec.: In ogni cosa, qualunque essa sia, l’uniformità è sconsigliabile. L’incompletezza in un oggetto lo rende interessante e dà l’impressione che ci sia la possibilità di perfezionarlo.”

Varrebbe la pena di sottolineare che il raku e la cerimonia del tè rappresentano anche l’affermarsi di una cultura compiutamente giapponese, per la prima volta svincolata dai condizionamenti di quella cinese che, per quasi un millennio, aveva costituito il modello indiscusso per la corte e gli uomini di cultura.

Le origini storiche del raku vengono riportate dalla tradizione in modo differente. La versione più accreditata parla di un Sen Rikyu insoddisfatto delle antiche tazze cinesi e delle ciotole da riso dei contadini coreani da lui utilizzate per la cerimonia del tè e alla ricerca di una ceramica moderna che sapesse esprimere la nuova sensibilità. Mentre passeggia per Kyoto, vede le tegole fatte da Chojiro e rimane colpito dalla granulosità degli impasti e dal loro aspetto consunto e sempre diverso, derivante dal rapido raffreddamento in recipienti pieni d’acqua. Di qui l’accordo col ceramista che produrrà sotto la sua diretta supervisione una serie di tazze (che spesso sul fondo recano scritte tracciate personalmente da Sen Rikyu) modellate a mano una per una senza ricorrere al tornio e cotte con lo stesso rapido sistema delle tegole.

Secondo altre fonti, invece, il protagonista non sarebbe Chojiro, ma suo padre Ameya, un ceramista coreano (ma secondo alcuni storici proveniva invece dalla provincia del Fuchien, in Cina) che nel 1525 si era stabilito a Kyoto. Ancora diversa, e singolarmente affascinante è invece la versione che parla di alcuni monaci zen che si fabbricano da soli le tazze e poi decidono di gettarle nel fuoco per vedere che cosa succede. Alcune di quelle tazze sopravvivono alla prova e il loro aspetto così povero e materico li convince ad adottarle stabilmente per la cerimonia del tè

Secondo Bernard Leach - il famoso ceramista inglese che fece conoscere questa tecnica in Occidente ai primi del ‘900 - fu lo shogun Oda Nobunaga a far diventare di moda questo tipo di ceramica, utilizzando per primo vasellame raku durante le cerimonie del tè, da lui offerte agli illustri ospiti sotto la supervisione del Maestro.

Nel 1578, infatti, Sen Rikyu entra a far parte del seguito di Oda Nobunaga e quattro anni più tardi, alla sua morte, passa al suo successore Toyotomi Hideyoshi per l’incredibile stipendio annuo di 3.000 koku di riso.

Se si pensa che 1 koku di riso bastava a sfamare un’intera famiglia per un anno, si comprende l’enorme importanza che i due shogun attribuivano alla cerimonia del tè da loro apprezzata soprattutto come strumento per ingentilire l’animo (spesso violento e dissoluto) dei generali e portare ad una conciliazione generale fra le caste guerriere e i cittadini in nome di un comune ideale di armonia e semplicità. Sappiamo che Sen Rikyu accompagnava sempre Hideyoshi durante le spedizioni militari e che questi durante la battaglia di Yamazaki (poi vinta) si concesse un momento di relax all’interno del padiglione di Myoki-an appositamente eretto da Sen Rikyu.

Dopo una decina d’anni, però, il sodalizio con Hideyoshi si incrina. Sen Rikyu col tempo accentua ancor più la sua ricerca di semplicità mentre lo shogun indulge ad una esibizione di lusso sempre crescente, giungendo a far rivestire in foglia d’oro le pareti della stanza in cui si svolgeva la cerimonia del tè per la quale utilizzava solo vasellame d’oro.

Infine, non sopportando più il contrasto evidente con l’austerità di abitudini del suo Maestro, Hideyoshi lo condanna a morte per tradimento. Il 28 febbraio 1591, a 70 anni, Sen Rikyu legge la poesia d’addio che ha composto per l’occasione e fa seppuku.

La ceramica raku, però, a questo punto ha già conquistato un suo ruolo e non risente della caduta in disgrazia del suo primo ispiratore.  Nel 1598, infatti, Hideyoshi conferisce a Jokei, il figlio di Chojiro, un sigillo d’oro con l’ideogramma raku che da quel momento verrà impresso a tutta la produzione e diventerà anche il nome della famiglia, giunta ora alla quindicesima generazione di ininterrotta attività ceramica.

Raku significa gioia, felicità ed insieme facilità ma certo contiene anche il riferimento alla terra rossa con cui erano modellate le tazze, estratta dallo Jurakudai, dove sorgevano sia il padiglione dei divertimenti di Hideyoshi che l’abitazione di Sen Rikyu. Il conferimento del sigillo è comunque un evento importantissimo perché sancisce il passaggio dei ceramisti giapponesi dallo status di artigiani a quello di artisti. 

La morte del grande Maestro non modifica neppure la cerimonia del tè che, con lui, aveva acquistato una nuova dimensione, diventando elevazione spirituale attraverso la bellezza, arte di vita accessibile a tutti non più attraverso il lusso e la perfezione, ma al contrario con la semplicità e l’imperfezione.

Vediamo quindi come fosse lo svolgimento del cha-no-yu tipico del tardo XVI secolo. Va innanzi tutto osservato che, con Sen Rikyu, lo spazio riservato alla cerimonia si riduce sempre più, passando dagli iniziali quattro tatami e mezzo (il tatami è la stuoia usata per il pavimento e misura circa 1 metro x 2) a due soli tatami, in base al concetto che minore è lo spazio fisico e maggiore sarà quello spirituale.

A questo proposito si diceva che Sen Rikyu avesse fatto entrare l’infinito nel finito, risolvendo così il classico koan (l’enigma zen in forma poetica) che chiedeva in che modo si potesse far sì che un seme di papavero contenesse una montagna. Per Sen Rikyu era talmente importante potersi concentrare su pochi oggetti essenziali che giungeva a piantare cespugli sotto le finestre del padiglione per evitare che un paesaggio troppo suggestivo potesse distrarre gli ospiti.

In ossequio a questo concetto tutto il rituale e l’ambiente in cui si svolge la cerimonia del tè (che nella precedente epoca Muromachi era una festa lussuosa, seguita da un banchetto) appaiono improntati alla massima semplicità.

Il padiglione tipico di Sen Rikyu riproduce la casa dei contadini, col tetto di paglia e le pareti semplicemente intonacate; l’unica decorazione è collocata nel tokonoma (una nicchia con pedana) e consiste in genere in una composizione floreale o in un rotolo su cui è stato tracciato un disegno ad inchiostro o una breve poesia.

Sen Rikyu, nel suo modo tipicamente minimalista, insegnava ai suoi discepoli che la cerimonia del tè consisteva unicamente nel bollire l’acqua, preparare il tè e berlo, ma in realtà era necessaria una rigida disciplina interiore perché il maestro riuscisse a creare un momento di totale armonia spirituale per i suoi ospiti.

Le regole fondamentali cui attenersi si riassumono in quattro concetti fondamentali tutti improntati a semplicità, frugalità di vita e venerazione della natura: wa, l’armonia (interiore e con l’ambiente), kei, il rispetto, l’attenzione verso le persone e gli oggetti; jaku, la serenità interiore e sei, la purezza, intesa sia come purezza dello spirito che come pulizia assoluta dell’ambiente e di tutti gli oggetti impiegati.

Il cammino prestabilito che i partecipanti alla cerimonia devono percorrere aveva lo scopo di distaccarli progressivamente dalle preoccupazioni della vita per concentrare la loro attenzione sulla natura e liberare così lo spirito.

I partecipanti (mai più di tre o quattro) si raggruppano all’esterno e attendono sotto una pensilina l’arrivo del maestro che apre il cancello di bambù e li guida attraverso il giardino che riproduce in genere un paesaggio montano lungo un percorso segnato da alcune pietre che affiorano, in maniera apparentemente casuale, fra le erbe e i muschi.

Lungo il cammino, poco prima di entrare, gli ospiti sostano presso un bacino di pietra sul quale si piegano per sciacquarsi la bocca e lavarsi le mani. Se la cerimonia del tè si svolge di sera i loro passi vengono invece illuminati da una lanterna di pietra, simile a quelle dei villaggi rurali.

Infine, giunti al piccolo padiglione entrano, uno alla volta e ginocchio, perché la porta è larga circa 60 cm e alta 66 (comunque mai oltre i 90 cm, per impedire sia l’uso di abiti sontuosi che la presenza di spade o altre armi). L’ordine delle fasi della cerimonia del tè è fisso, con piccole varianti a seconda delle stagioni: in inverno il Maestro prepara prima le braci per scaldare l’ambiente, mentre in estate viene servito subito il kaiseki.

Il kaiseki è il pasto che accompagna la cerimonia completa - in quella informale abbreviata viene servito solo il dolce - nella quale ogni vivanda è presentata in recipienti diversi per forma, colore e anche materiale (gres, porcellana, lacca, legno grezzo e anche vetro) in modo da creare un piacevole aspetto visivo. Si tratta, è chiaro, di un pasto simbolico (quasi virtuale) nel quale devono essere presenti i cinque sapori fondamentali : amaro (il tè), dolce (il dolce), acido (i condimenti), salato (i cibi cotti), speziato (fagioli di soia fermentati) Gli oggetti usati sono sempre gli stessi: il braciere, il vaso per le foglie di tè, il mestolo di bambù, il recipiente dell’acqua, quello del tè verde in polvere, il frullino di bambù e, naturalmente, la tazza che rappresenta l’oggetto più importante cui gli ospiti rivolgono la loro attenzione.

All’inizio, quando venne importata dai monaci buddisti provenienti dalla Cina, la cerimonia del tè faceva parte di un rituale che si svolgeva davanti ad una statua di Bodhidarma alla quale si bruciava incenso e si offrivano fiori. E’ questa la ragione per cui inizialmente furono usate solo tazze cinesi, specie antichi céladon o temmoku, i famosi gres neri dalla coperta variamente chiazzata “a goccia d’olio”, “guscio di tartaruga”, “pelliccia di lepre” o “foglie di tè in polvere”.

Agli inizi del XVI secolo, però, i Maestri del tè imprimono un carattere più semplice alla cerimonia, abbandonando le costosissime ceramiche cinesi d’antiquariato in favore delle tazze tipiche del Giappone rurale o delle ciotole Ido per il riso, eseguite dai vasai coreani senza il tornio ma avvolgendo a spirale una striscia di argilla. Anche Sen Rikyu inizialmente usa le tazze di Bizen e Shigaraki, di cui apprezza soprattutto l’aspetto non raffinato, dovuto all’impasto grossolano, e le belle sfumature bruno-rossastre che acquista la loro superficie spesso solo parzialmente invetriata.

Dopo l’incontro con Chojiro (o Ameya) di cui si è già detto, però, Sen Rikyu utilizza in pratica solo tazze raku, pur continuando ad usare ceramiche delle “Sei antiche fornaci” del Giappone per altri tipi di oggetti (per i vasi a fiori, ad esempio, considerava assai appropriati quelli Iga, modellati rozzamente e spesso screpolati o spaccati).

L’apprezzamento delle tazze raku da parte degli intenditori era rivolto al loro aspetto consunto e “usato” ma anche alla loro imperfezione, che le rendeva creazioni individuali. In base ai canoni zen, infatti, un pezzo eseguito perfettamente non tocca l’animo quanto uno cotto irregolarmente che porta il segno distintivo del vasaio e permette a chi lo guarda e lo prende in mano di entrare in simbiosi con la natura, per definizione incontrollabile, volubile e ineguale.

Le ceramiche raku, che consistono quasi esclusivamente in tazze da tè, vengono in genere raggruppate in due tipi: rosso e nero ai quali corrispondono due diversi metodi di cottura. In realtà, però, mentre il nero esige un forno particolare, in quello utilizzato per il rosso possono essere cotti anche i pezzi smaltati di bianco, verde e giallo. L’uso di questi colori, anche se certo meno frequente, non deve stupire, perché tecnicamente l’origine di questo particolare tipo di ceramica si riallaccia a quello del sansai (“a tre colori”) l’antica ceramica a vetrina piombifera che a sua volta deriva dal sancai cinese dell’epoca Tang e dal kochi Ming.

L’impasto usato per il raku era un’argilla ad alto tenore di silicio, estratta dal fiume Kamo, cui veniva aggiunta una chamotte di terracotta polverizzata.  Per lo smalto, che come si è detto rappresenta una ripresa delle antiche invetriature a piombo, si utilizzano miscele di alluminio, silicio, ferro, ocra, ottenute dalla macinatura di pietre e vetri.

La tazza, foggiata sempre manualmente, partendo da un disco piatto d’argilla che viene rialzato fino a formare i bordi,  veniva biscottata rapidamente a 800°C e poi ricoperta da uno smalto ad alto tenore di ossido di piombo, infornata nuovamente ed estratta appena lo smalto cominciava a fondere.

Per ilraku nero inizialmente si usava unire allo smalto la polvere di una particolare roccia del fiume Kamo, che donava un lustro molto scuro, oppure si otteneva attraverso l’aggiunta di ossido di ferro. La cottura veniva condotta sui 900-1000°C (in seguito si arrivò fino a 1200-1250°C) in riduzione in forni a carbone.

Il raku rosso, invece, veniva ottenuto con l’aggiunta di uno strato giallo sopra lo smalto ed era cotto in ossidazione in forni a legna, raggiungendo i 700-800°C. 

Ilraku prodotto ininterrottamente dalla famiglia per 400 anni e 15 generazioni si mantiene tutto entro la linea detta hon gama, che presenta alcune caratteristiche ben definite, si tratta cioè di opere legate all’esteticawabi (e cioè caratterizzate da semplicità, tranquillità e naturalezza), e di carattere  essenzialmente scultoreo in cui tutti gli elementi decorativi si bilanciano, rivestendo la stessa importanza dello smalto e del procedimento di cottura.

Le forme sono simili fra loro, con una differenza legata all’uso stagionale: le tazze da usarsi d’estate sono più basse, sottili ed espanse, per favorire il raffreddamento della bevanda, mentre, per la ragione opposta, quelle invernali hanno le pareti più grosse e sono più alte con un’imboccatura più stretta.

Forse una delle qualità più affascinanti per noi occidentali sta in questa fedeltà ad una concezione artistica che non si è mai tradotta in ripetitività ma ha saputo rinnovarsi senza mai perdere le proprie radici e la propria identità. La continuità familiare è importante anche per quanto riguarda i materiali; basti pensare che attualmente Kichizaemon XV dichiara di usare l’argilla preparata 90 fa dal bisnonno Konyu XII.

Nel valutare queste tazze dobbiamo sempre tener presente il fatto fondamentale che, mentre per noi occidentali è importante l’aspetto visivo, per i giapponesi (e gli orientali in genere) è quello tattile ad essere prevalente, per cui un oggetto deve risultare piacevole al tocco e lo smalto comunicare una sensazione di calore e morbidezza. E’ questa una delle ragioni per cui le tazze dell’Estremo Oriente mancano di manico, mentre cresce l’importanza data all’orlo dell’imboccatura, che deve essere convenientemente arrotondato. 

Il raku è stato anche considerato una tecnica estremamente stimolante da molti artisti giapponesi che vi si sono cimentati (con l’aiuto di maestri della dinastia) e nel far ciò si sono più o meno discostati dal rigore di Chojiro. In questo ambito, detto waki gama, troviamo, ad esempio, Honami Koetsu  e Ogata Kenzan.

Honami Koetsu (1556-1637) autore di lacche, calligrafo, poeta e pittore, l’artista forse  più ammirato del suo tempo, dal 1615 si dedicò al raku sotto la guida di Jokei (II Raku) e di Donyu (III Raku) e le sue tazze - caratterizzate dalle inedite sfumature biancastre e grige del rivestimento - furono talmente apprezzate dai contemporanei che la sua Fuji-san venne richiesta al posto della dote dai futuri suoceri di sua figlia.

Ogata Kenzan (1660-1743), invece, utilizzò un taccuino di appunti di Donyu che integrava coi consigli di Ichinyu (IV Raku). Nella sua interpretazione, che risente dello stile esuberante del fratello pittore Ogata Korin, il raku si allontana ancor più dalla concezione originaria di Chojiro, aprendosi ad una vivace decorazione a pennello.

Ed è a questa seconda interpretazione del raku che s’ispirerà quello prodotto in Occidente, attraverso la mediazione di Bernard Leach che svolgerà il suo apprendistato giapponese proprio presso Ogata Kenzan VI, del quale diventerà addirittura erede, assumendo anche il nome di Kenzan VII.

 


 

Honami Koetsu
Honami Koetsu
Chojiro Shunkan
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Katsura sala da te
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Donuy III
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