Fiori & ceramica.

Maria Grazia Morganti. Dal catalogo della mostra I Fiori dell’Anima, Faenza, Pinacoteca Comunale, 2010.

 

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      Agli inizi del Settecento, tramontata ormai la grande stagione dell’istoriato con le sue vicende di santi, di dei e di ninfe, e quella dei ‘bianchi’ decorati a compendiario, la porcellana e la maiolica europee vengono progressivamente invase da una profusione di fiori, foglie, alberi, giardini esotici e intrecci vegetali d’ogni genere. E’ il segno di un gusto intimistico e sentimentale che spazza via le complesse grandiosità del Seicento, di un’epoca che non si riconosce più nella magniloquenza della grande decorazione barocca, preferendole qualcosa di più immediatamente piacevole, fresco ed insieme più ‘vero’, in nome anche del nuovo credo scientifico che l’Illuminismo porta con sé.

   I fiori, che avevano affollato i dipinti del XVI e del XVII secolo, li abbandonano, per disporsi sui piatti e sui vassoi, sulle salsiere e le jardinières dalle forme mosse e capricciose, perdendo nel passaggio ogni precedente connotazione allegorica e moralistica. Non sono più il simbolo dell’olfatto o della caducità della giovinezza, non indicano vizi e virtù cardinali, ma hanno l’unica funzione di rallegrare la vista, senza recare con sé cupi riferimenti controriformistici.

     Una profusione di tulipani, peonie, camelie, rose, crisantemi, primule, garofani, begonie, astri, gerbere, margherite, iris, zinnie, mughetti, giacinti, narcisi, fresie, calendule, anemoni e nontiscordarmè, isolati o raccolti in grandi mazzi variopinti, che sono composti solo in base alla gradevolezza degli accostamenti cromatici, si riversa ovunque. Fiori spensierati e un po’ superficiali che non vanno più indagati per il loro significato nascosto ma semplicemente apprezzati perché costituiscono una vera gioia per gli occhi.

   Dietro l’esempio offerto dalle porcellane sassoni e dalle maioliche di Delft, i fiori invadono il panorama domestico europeo, senza limitarsi alla cucina e alla sala da pranzo, luoghi ovvi e ragionevoli, ma sconfinando nei salotti e nelle camere da letto sotto forma di lampadari, specchiere, perfino trumeaux e bureaux fioriti come giardini di maggio, e di innumerevoli soprammobili dai fitti bocages, i boschetti fioriti che ospitano squisite galanterie pastorali, deliziose quanto improbabili. Sono, del resto, decorazioni perfette per le nuove forme degli oggetti che hanno perduto ogni pesantezza barocca per diventare, col rococò, più ariose e dinamiche. Viluppi di rami e foglie, dunque, ideali per esprimere con immediatezza il nuovo gusto per la linea serpentinata e l’ interesse per la natura, che s’impone in tutte le arti applicate del tempo.

     In un primo momento ad essere rappresentati sono soprattutto i fiori dell’Estremo Oriente, quegli indianische Blumen discendenti più o meno diretti degli esemplari che costellavano le porcellane cinese e quelle Imari e Kakiemon, immensamente care al padrone di Meissen, quell’Augusto il Forte, Grande Elettore di Sassonia, che le collezionava nel suo Palazzo Giapponese di Dresda. Pochi decenni più tardi, però, alle peonie, ai loti e ai crisantemi, di norma rappresentati dai vasai cinesi in forme stilizzate, anche perché comunemente usati come riferimento a concetti astratti come l’amicizia, la purezza, la longevità o la bellezza, si sostituiscono i fiori europei, di giardino o di campo che siano.

   La moda dilaga a tal punto - da Vincennes-Sèvres a Meissen, a Vienna, a Frankenthal, a Niderviller, a Chelsea, a Worcester, a Derby, a Capodimonte, a Doccia e via via in tutte le fabbriche di porcellana – che, nei laboratori della manifatture più importanti, ai reparti degli specialisti in ritratti, in vedute e in copie di quadri famosi, si aggiunge quello dei pittori di fiori ‘botanici’ che possono ora sfruttare la felice coincidenza dell’invenzione della “porpora di Cassius”, il cloruro stannato d’oro tempestivamente impiegato dai cinesi dell’epoca Yongzhen nelle porcellane della “famiglia rosa”.

   Finalmente – dopo secoli di tentativi infruttuosi – è adesso possibile ottenere tutte le sfumature del rosa, con la sola precauzione di una cottura a bassa temperatura, condotta entro la protezione della muffola. E difatti il rosa dilaga, specie dopo il 1745, quando Paul Hannong riesce a realizzarlo per la prima volta anche su maiolica. Da Strasburgo e Marsiglia, allora, è tutto un trionfo di fiori naturalistici dipinti, anche su fondo giallo, en chatironné, cioè coi petali contornati di nero, oppure direttamente in policromia, eseguiti a mano libera o con spolveri tratti dalle stampe e dalle illustrazioni dei testi botanici, che diventano sempre più numerosi per l’interesse suscitato dall’argomento.

   Fiori singoli, sparsi qua e là con apparente noncuranza, disposti su rami o raccolti in mazzi, fiori di tutti i tipi che, con l’approssimarsi dell’Ottocento diventeranno un po’ meno flessuosi, acquistando una disposizione più regolare, quando non addirittura simmetrica, per adeguarsi alle nuove, antichissime forme delle anfore e delle urne neo-attiche.

   In ogni caso, anche in ceramica, si apprezzano soprattutto le rappresentazioni veridiche. Il fenomeno è generale anche se, volendo, si potrebbe individuare, pur all’interno di uno stesso spirito di illuministico realismo e di amore per le scienze naturali, una maggiore propensione delle fabbriche meridionali per il pittoricismo a mano libera e un più stretto rigore rappresentativo nella zona nord e centroeuropea.

     Meissen, ad esempio, crea la serie degli Holzschnittblumen, i fiori xilografati con tanto di ombre riportate, anche se l’apice di questa tendenza è certo rappresentato da quella sorta di enciclopedica stoviglieria botanica su porcellana che fu il servizio Flora danica (milleottocento pezzi, piatto più piatto meno) minuziosamente decorato dalla Royal Copenhagen dal 1790 al 1803 con le esatte riproduzioni delle tavole, diverse per ogni pezzo, tratte dalla monumentale opera di Georg Christian Oeder.

   Fiori di ogni tipo, si diceva, ma soprattutto rose che, con la loro rappresentazione sempre diversa nel corso dei decenni, sembrano quasi incarnare il passaggio da un’epoca all’altra, in bilico fra un certo spirito libertino/libertario fin de siècle e la nuova esigenza di irreprensibilità borghese. Dalle sontuose centifoliae gonfie di petali, insomma, carnali come una scollacciata marchesa di François Boucher alle castigate roselline Biedermeier di Vienna, vivida trasposizione in campo floreale della linda ed appagata borghesia mitteleuropea, si può cogliere in filigrana tutto il senso di un’epoca in rapida trasformazione sociale.

   Nell’Italia della maiolica e della più rara porcellana, questa follia floreale d’ascendenza nordica contagia rapidamente un po’ tutte le manifatture, con decori simili che riappaiono qua e là seguendo le vite avventurose dei questi pittori-decoratori di gran classe, come Pietro Lei o Pierre Varion, costretti a trasmigrare da una manifattura all’altra, per una privativa concessa o tolta, assecondando le passioni alchemiche, i capricci, i sogni e le ambizioni di elevazione sociale, perfino le carriere politiche, di nobili e ricchi borghesi.

   Fra tutti si potrebbero citare, in particolare, i fiori “francesi” interpretati con freschezza pittorica a Savona da Giacomo Borselli e dai Ferretti a Lodi, quelli rilevati a borbottina di Clerici e di Rubati a Milano, sontuosamente accostati a grandi foglie di tabacco e uccelli Feng, il vivace “blansèr” dell’Antonibon di Nove, senza dimenticare la grande varietà floreale e l’ accuratezza botanica che contraddistinguono la breve attività della Finck di Bologna.

   Ovunque, in ogni caso, trionfa la rosa, diventando spesso – come nel caso della rosa ‘sabauda’ di Vinovo, della rosa ‘di Pesaro’ di Casali e Callegari o della rosa ascolana ‘dei Paci’ - una riconoscibile griffe o addirittura l’emblema della produzione locale.

   Anche la Ferniani, a Faenza, segue l’andamento generale. Agli inizi del Settecento sono soprattutto i fiori ‘cinesi’ (o ‘indiani’) a tenere banco, primo fra tutti quel “garofano delle Indie” - forse una peonia arrotondata o forse chissà – che poi diventerà, complice un ricco ordinativo di Tiffany, fiore-simbolo della maiolica faentina e banco di prova obbligato per i decoratori locali.

   Sui piatti e sui vassoi, intanto, si moltiplicano i giardini fantasiosi che, di volta in volta, accostano con disinvoltura cinesini dal cappello a cono, pappagalli (ma anche aquile) su colonne spezzate, rami di pesco o pruno in fiore e spropositati mazzi di fiori di campo, dalle corolle come ruote di bicicletta, in equilibrio precario entro leggiadri vasi rococò.

   Col tempo, anche qui, la cineseria lascia il posto ad rappresentazione più fresca ed insieme più precisa dei motivi floreali, sempre dipinti in prevalenza su forme aperte. Sparite quindi le pagode dall’architettura un po’ dubbia, le palme, i salici e i ponticelli giapponesi destinati a conferire un tocco esotico alla composizione - e con loro anche quell’affascinante indeterminatezza botanica per cui lo stesso motivo appare identificabile come doppio tulipano, peonia o fiore di loto - l’attenzione si concentra soprattutto su fiori più comuni e riconoscibili. Molto diffusi il “fiore di patata” in manganese e il più popolaresco “fiorazzo”, con due grandi corolle in giallo e viola di manganese schizzate velocemente ai lati di un tralcio centrale, contornato da rami fioriti e fiorellini blu e arancio, ma anche, dipinti nella stessa gamma cromatica, i “fiori di vari colori” e i “mazzi di fiori” che comprendono spesso iris e tulipani, e i raffinati bouquets di fiori dai toni sfumati che, nell’Ottocento neoclassico, si accompagnano alle anfore squadrate.

   Dopo la prima fase pionieristica dei tardi anni ’70, anche presso la Ferniani si moltiplicano le rose in ‘porpora di Cassius’, che vengono rappresentate in modi sempre diversi. Rose isolate oppure su ramo con boccioli, roselline in stile Ginori e anche le caratteristiche “mezze rose”, che si accompagnano al nuovo verde smeraldo a terzo fuoco, lo stesso utilizzato da Filippo Comerio per le sue allampanate figure che si aggirano fra rovine e alberi impietriti.

   L’alta qualità dei decori floreali è ovviamente imputabile anche alla scelta degli esecutori, primo fra tutti quel Pietro Piani, allievo di Comerio, abilissimo decoratore di fiori ‘botanici’ e inventore di nuovi motivi, che poi passa alla pittura tout court, dipingendo nature morte ed anche tempere parietali in Romagna e nel bolognese, anche in collaborazione con Antonio Liverani.

   In alcuni pezzi di gran classe della Ferniani compaiono anche le rose ad alberello, dipinte da Luigi Benini all’interno di giardini popolati di uccelli e farfalle riprodotti con la stessa accuratezza, massimamente rispettosa della morfologia botanica, che contraddistingue anche altri due fortunati motivi vegetali di fine secolo, la “foglia di vite” dai colori autunnali e la splendida “ghianda", generalmente associata a raffinati festoni, ricami e fili di perle.

   Questa stagione intensa di fiori e di colori che sembrano anche profumi, s’interrompe in tutta Europa dopo più o meno un secolo di vita, sopraffatta dalla nuova moda dello Storicismo e dai vari revivals, salvo risorgere gloriosamente col neo-rococò di fine Ottocento. Qualche esempio originale c’è (Gaetano Lodi ad Imola, Gaetano Nigrisolo a Treviso o Felix Bracquemond a Parigi, tanto per fare qualche nome) ma in genere si tratta per lo più delle repliche di un repertorio settecentesco già ampiamente noto e collaudato o di camei citazionisti.

   Un po’ diversa, forse, la situazione della sola Inghilterra che, come si sa, ama andare contromano, e nei costosissimi vasi in bone china di Rockingham, Minton e Nantgarw, affastella fiori dipinti e applicati su forme incredibilmente complicate di varia ascendenza, in uno stile sovraccarico prettamente vittoriano.

   Alla fine del XIX secolo, in ogni caso, il grande momento del fiore naturalistico, di nuova concezione o di ricalco rococò che sia, si esaurisce. Anche l’Art Nouveau, in apparenza floreale all’ennesima potenza, in realtà impiega i suoi flessuosi iris, glicini e tulipani come puro spunto decorativo, affidando il proprio stile soprattutto alle nuove tecniche, come la pittura a barbottine colorate (la ceramica impressionista di Auteuil), il lustro (Chini e Zsolnay), l’aerografo (le manifatture scandinave) o le spesse vernici cristalline (Rookwood).

   Limitati nella presenza all’interno della ceramica d’arte o in quella degli studio potters, piegati anche dal déco ad arabesco ornamentale, i fiori si precipiteranno allora in massa nelle piastrelle trovando la loro rivincita in un mercato ancor più ampio e promettente.

Ma questa è, chiaramente, un’altra storia.

 

Maria Grazia Morganti

 

Letture consigliate sull’argomento:

Ugo Gobbi, Il decoro floreale naturalistico nella ceramica del XVIII secolo, Vitorchiano (VT), Editrice Milo, 1996

 

Atti del Seminario Internazione di Studi Il decoro floreale naturalistico nella ceramica europea del XVIII secolo, Faenza 24-25-26 gennaio 1997, in “Faenza” a. LXXXXVII (2001), fasc.1-3, pp. 95-268

 

Carmen Ravanelli Guidotti, a cura di, La Fabbrica Ferniani. Ceramiche faentine dal barocco all’eclettismo, Milano, Silvana Editoriale, 2009

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