Le maioliche rinascimentali della Collezione Strozzi Sacrati.

Fiocco - Gherardi. In Capolavori di maiolica della collezione Strozzi Sacrati, a cura di Gian Carlo Bojani e Francesco Vossilla, Firenze 1998, p.19-32.

 

 

L’importanza di una collezione  è certo  dovuta  alla qualità intrinseca degli esemplari che la compongono, ma ancor  più al loro collocarsi nei punti nodali dell’evoluzione ceramica, e al fornire materiale per una discussione. La collezione Strozzi Sacrati  possiede entrambi i requisiti:  da un lato rappresenta una sintesi qualitativamente molto alta ed esauriente della storia della maiolica, spaziando dagli ornati più comuni come la palmetta o l’occhio di penna di pavone fino ai più rari e difficili, come gli istoriati, ovvero le storie di vario tipo dipinte sul fondo brillante dello smalto. Dall’altro rappresenta  una vera e propria sfida per chi intenda studiarla.   Alcuni oggetti sono infatti difficili da catalogare con precisione, offrono la possibilità di diverse  attribuzioni, o sono stati eseguiti da personaggi sulla  cui identità  si discute.  Parlare di questa collezione è dunque avventurarsi in una serie di problemi alcuni dei quali sono ancora lontani da una soluzione.  Cercheremo qui di delinearli, per evidenziare l’interesse anche scientifico di questa esposizione, e del convegno che la seguirà .

 I nuclei  di maggior spicco sono essenzialmente due, quello faentino e quello dello stato di Urbino, che comprendono oggetti di grande pregio anche per l’epoca in cui furono eseguiti.  Più legate all’uso comune appaiono le maioliche toscane, prodotte a Montelupo, mentre fa poco più che un’apparizione Deruta, con un singolo piatto da pompa .

Si tratta tuttavia di uno splendido esemplare , rivestito in alcune sue parti dal lustro,  metallizzazione dorata ottenuta con sali di argento e di rame, applicata in terza cottura a fuoco basso e atmosfera riducente.  Rispetto alle normali tecniche della decorazione su maiolica, largamente diffuse su quasi tutto il territorio italiano, il lustro trova nella piccola città vicina a Perugia il suo centro di elezione.  Fin dalla seconda metà del Quattrocento la famiglia dei Masci si arricchì sfruttando questa tecnica di origine islamica, che conferisce alla ceramica un aspetto prezioso e un po’ arcaizzante.  Continuò poi ad essere prodotto fino a tutto il secolo XVII, e ancora nel 1680 un viaggiatore ricordava ammirato, nella Guida da lui redatta, la maiolica finissima del colore dell’oro che aveva ammirato a Deruta[1] .  Il lustro è particolarmente adatto a valorizzare i piatti da pompa, destinati ad essere appesi, e caratterizzati perciò da raffigurazioni generalmente impegnate, di carattere religioso o celebrativo. Un esempio è fornito dal piatto Strozzi-Sacrati  con l’immagine di un angelo annunciante,  probabilmente destinato ad   essere appeso accanto a un altro esemplare con la Vergine Annunciata, completando così la rappresentazione.  Poiché la tesa reca una suddivisione caratteristica che non pare affermarsi prima del 1520 circa,  sorprende la tipologia dell’angelo, così legata ai modi del Perugino e del Pinturicchio, di venti - trenta anni precedenti.  Ma è noto che i maiolicari umbri faticano a staccarsi da una così splendida tradizione  e, pittoricamente parlando, non sembrano inseguire l’attualità.  Rimangono fedeli a una maniera ormai superata ma certo ancora richiesta dai committenti, e molto cara al sentimento popolare.  E’ probabile che le botteghe disponessero di disegni dei grandi maestri, di cui si servivano a lungo.  Il piatto da pompa con l’angelo è dunque particolarmente significativo nell’ambito della maiolica derutese,  per la sensibilità peruginesca e per l’uso del lustro.  Rimane però   isolato nel contesto della collezione, e l’Umbria non è ulteriormente rappresentata, se non attraverso un’alzata e due piatti ovali compendiari ormai secenteschi con lo stemma della famiglia Strozzi. 

Al contrario, le opere del contiguo stato di Urbino costituiscono una presenza significativa sia per il numero degli esemplari che per qualità.  Esse provengono in massima parte dalla capitale del ducato e sono quasi tutte  istoriate,  ovvero decorate a storie.  E’ questo un genere per cui le botteghe urbinati diventano famose a partire circa dal 1520, quando acquistano  importanza  in seguito forse allo stabilizzarsi della situazione politica e al rientro in patria  di Francesco Maria della Rovere[2].  La presenza della corte roveresca favoriva lo sviluppo di questa tipologia d’elite, legata a una committenza elevata, e che richiedeva decoratori particolarmente abili, in grado di utilizzare le fonti grafiche ed eventualmente piegarle ai propri fini. Le stampe costituiscono per l’istoriato un punto di riferimento indispensabile, e lo sviluppo di entrambi è significativamente parallelo. Circolavano nelle botteghe artigiane taccuini e fogli di disegni, in alcuni casi appositamente commissionati per uso ceramico.  Tuttavia le stampe erano di gran lunga la fonte più sfruttata, e una famosa illustrazione del trattato del Piccolpasso mostra i decoratori al lavoro mentre alcune stampe pendono dalla parete infilzate a un chiodo.  Da esse veniva poi tratto lo spolvero, disegno i cui bordi forati permettevano, tramite l’uso di un tampone, di trasferire sullo smalto ancora crudo la traccia in polvere di carbone.   E’ interessante notare che nei centri forniti di una propria tradizione artistica dai caratteri ben definiti i maiolicari tendono a rimanerle fedeli e ad operare scelte ad essa coerenti. Così, ad esempio, se a Deruta viene privilegiato l’ambito peruginesco o pinturicchiesco, a Urbino le scelte si orientano verso Raffaello e la sua scuola, recepita attraverso l’opera grafica di Marcantonio Raimondi e della sua scuola.  Vengono illustrate così sulla superficie maiolicata  scene  efficaci sotto l’aspetto drammatico e spazialmente ben strutturate, caratterizzate talvolta da grande sensibilità pittorica. 

 Naturalmente anche per le principali botteghe urbinati la produzione ordinaria consisteva di oggetti  banali  con ornati semplici,  più remunerativi a causa del minor lavoro che richiedevano.  Tale produzione,  presente nei reperti di scavo, è però in genere trascurata negli studi, e viene correntemente confusa con quella di altri centri limitrofi, in particolare



[1] Sabelli, Guida sicura del viaggio d’Italia, Ginevra 1680, p.223

[2] Alla morte di Leone X  (1521) Francesco Maria recuperò pressochè tutto lo stato e ottenne da Adriano VI l’investitura del ducato (1523)

 

 

Casteldurante e Pesaro[1]. L’attenzione si è quasi sempre focalizzata sugli istoriati, per i quali venivano  assunti anche decoratori libero-professionisti , come lo fu lo stesso Avelli[2].

A produzione urbinate della  prima metà del secolo appartiene  la coppa con l’Annunciazione, dove è riprodotta  quasi alla lettera un’incisione  di Marcantonio Raimondi tratta da Raffaello[3].  La composizione ebbe tale successo che persino il Tiziano la riprese più tardi per il polittico di Dubrovnik.  Già il Liverani [4].sottolineava l’affinità di questa coppa con i modi delPellipario, ovvero Nicola di Gabriele Sbraghe, forse il più abile pittore di istoriati in Urbino Presente nei documenti a partire dal 1520 [5], Nicola risulta morto nel 1538, quando la vedova ne affitta la bottega per tre anni a Vincenzo di Giorgio Andreoli.  Vicino di Guido di Nicolò Schippe o Durantino, Nicola gestiva una propria bottega.  In una occasione almeno, però, non disdegnò di dipingere presso quella del collega[6], permettendoci così di risalire al suo stile personale, e fornendoci la certezza  che gli esemplari da lui siglati sono autografi e non opera di collaboratori  . E’  possibile quindi definire le sue caratteristiche, ad esempio il particolare modo di costruire le figure, dai visi dolci a forma di mandorla, e dalle giunture strette ma forti, le rocce nerastre, gli alberi sinuosi, i paesaggi che degradano sfumando in profondità, con bracci di mare, borghi, castelli. Ma, soprattutto colpisce  la straordinaria raffinatezza dell’esecuzione, ben superiore alla media, che continuerà a distinguerlo dagli imitatore anche quando certi suoi manierismi tendono a diffondersi e a diventare comuni.  Anche la calligrafia con cui sono tracciate le iscrizioni sui retri è pressochè unica per l’eleganza del tratto, ed è un peccato che la coppa Strozzi Sacrati non ne riporti alcuna, perché questo avrebbe favorito l’attribuzione, che resta tuttavia probabile per l’altissima qualità pittorica.   

  E’ ben vero che tra il 1525 e il 1535 è attivo in Urbino un pittore di istoriati talmente vicino a Nicola da venire spesso confuso con lui. Il Mallet lo chiamò col nome convenzionale di Milan Marsyas Painter[7], da un piatto da lui dipinto con la Gara fra Apollo e Marsia, nel Castello Sforzesco di Milano. Il periodo di attività, oltre che su basi stilistiche, lo si può desumere dalle date a lustro tracciate su alcune sue opere che Maestro Giorgio completò a terzo fuoco[8].  Profondamente influenzato da Nicola, da cui deriva la maggior parte delle stilizzazioni e la delicatezza del tratto, se ne distingue in quanto i suoi personaggi sono meno vari negli atteggiamenti, ed hanno   volti meno espressivi.  I paesaggi non hanno la stessa profondità, e persino la scrittura non è così accurata  A lui va attribuito  il piatto con l’Astrologo, tratto in controparte da un’incisione di Agostino Veneziano, a sua volta desunta da Giulio Campagnola,  ed eseguito probabilmente verso il 1530.  Fa parte di un   servizio di cui sono noti otto piatti e una saliera, contrassegnato da uno stemma con tre crescenti, disposti due in basso e uno in alto. E’ possibile che si tratti di una variante dello stemma Strozzi, e probabilmente per questo motivo il piatto è entrato a far parte della collezione.  Sono state fatte tuttavia diverse altre ipotesi, fra le quali che si tratti delle famiglie Cosi o Detti[9], o dell’impresa dei Manetti di Firenze[10] . Ricorderemo per inciso che accanto al gruppo con questo stemma ce n’è un secondo nel quale i crescenti  sono disposti  due sopra e uno sotto , e che è stato dipinto da Francesco Xanto Avelli. Si discute se si tratti di un secondo servizio o piuttosto di parte del precedente affidato a un diverso pittore o addirittura a una differente bottega, come capitava talvolta per commissioni di grossa mole.  Di certo i colori sono simili ed entrambi i gruppi sembrano appartenere allo stesso periodo[11]

Di qualche anno più tarde e anch’esse ornate a storie sono le sette  coppe dalla parete liscia, con due diversi tipi di profilo, che formano tuttavia un insieme coerente per decorazione, eseguito probabilmente dalla stessa mano. Il Liverani le attribuiva a Casteldurante[12], notandovi un sodo classicismo che lo portava a ritenerle di Nicola Pellipario maturo.  Oggi, dopo le scoperte relative all’identità di Nicola e alla sua appartenenza urbinate[13], le collocherebbe forse in Urbino, ed effettivamente le coppe presentano analogie molto strette con un pittore attivo nella bottega di Guido di Merlino,



[1] I recenti ritrovamenti ad Urbino  confermare pienamente questo fatto (v. M. Giannatiempo Lopez, Urbino Palazzo Ducale.  Testimonianze inedite della vita di corte, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici delle Marche, Urbino 1997).

[2] I diversi ruoli rivestiti dai maestri ceramisti urbinati sono adombrati da un documento che potremmo definire sindacale del 7 agosto 1530, in cui  Nicola di Gabriele, Guido Durantino, Guido Merlini , Giovanni Maria di Mariano e Federico di Giannantonio, venuti a conoscenza che alcuni dipendenti dell’arte avevano pattuito compensi più favorevoli della media, si impegnano  a non  assumere  nessuno di loro a nessun prezzo senza l’assenso degli altri  maestri. Fra i dipendenti  le cui pretese si intende calmierare c’è Francesco da Rovigo, ovvero l’Avelli,  che in quel periodo lavorava evidentemente da libero professionista, senza una propria bottega (F.Negroni , “Nicolò Pellipario ceramista fantasma”, in Notizie da Palazzo Albani, 1/1985 p.18).

[3] The Illustrated Bartsch       n.15 p.25

[4] G. Liverani,., “La suppellettile in  maiolica di una antica casa italiana”, in Faenza XXX, I-II, 1942 p.

[5] Le notizie su Nicola sono tratte dal già citato articolo di F.Negroni,  pp.12-20.

[6] V. ad esempio il famoso piatto con il Martirio di Santa Cecilia del Museo del Bargello, che ebbe una parte notevole nell’equivoco che aveva fatto identificare Nicola con il padre di Guido. 

[7] J.V.G. Mallet, “Xanto :  i suoi compagni e seguaci”,  in Francesco Xanto Avelli da Rovigo  (Atti del convegno internazionale di studi, Rovigo 3-4 maggio 1980), Rovigo, Assessorato alla cultura e Centro polesano di studi storici, 1988, pp.70-73.

[8] Ib. p. 72.  Fra esse, il frammento del Victoria and Albert di Londra inv.   in B.Rackham 1940 n. 733, datato 1535.

[9] T.Borenius, Catalogue of the Collection of Italian Maiolica belonging to Henry Harris, London 1930 p.46 n.40

[10] J. Rasmussen, The Robert Lehman Collection, X, Italian Majolica, The Metropolitan Museum of Art, New York, 1989 p.126. Il Rasmussen sottolinea come  i crescenti nell’impresa degli Strozzi sono sempre accompagnti da fiamme.

[11] Ibidem p.70.

[12] G. Liverani, op.cit. 1942 p.

[13] F. Negroni, op.cit. 1985.

 

 

riconoscibile in un piatto con un episodio dell’Eneide dell’ Herzog Anton Ulrich Museum di Braunschweig, ritenuto dalla Lessman autore anche del servizio con lo stemma d’alleanza  Horwarth und Schellenberg di Augsburg[1]  .  Guido di Merlino è documentato  dal 1542 al 1551, e queste date si adattano perfettamente al momento stilistico delle coppe.  Altra possibile attribuzione è però a Pesaro, che ha avuto una  fioritura di istoriati a partire circa dagli anni quaranta, notevole anche se nel complesso subordinata a quella della vicina Urbino. Girolamo Lanfranco dalle Gabicce occupa in questo ambiente un ruolo primario, e presso di lui si suppone abbiano lavorato numerosi pittori noti per lo più con nomi   convenzionali. Sulla base dei colori, delle architetture e della  scrittura sui retri,  risulta dunque piuttosto convincente  il confronto fra le coppe Strozzi-Sacrati  e la  maniera del pittore Giacomo, probabilmente il figlio di Girolamo, autore di un piatto del Museo Civico Medievale di Bologna[2].  Tali incertezze attributive non devono meravigliare, poiché sono dovute in gran parte ai frequentissimi scambi di artefici e manufatti fra  centri vicini, e al trasferimento a Pesaro di ceramisti già formati presso le botteghe urbinati, come avviene nel caso di Sforza di Marcantonio.    Il fenomeno va forse messo in relazione con l’ascesa al ducato di Guidubaldo II della Rovere, che preferiva risiedere a Pesaro[3].  La presenza di una corte è sempre un potente polo di attrazione per artisti e artigiani.  Resta sempre  però al primo posto la produzione urbinate che, passata la metà del secolo, non dà segno alcuno di stanchezza, ma si evolve in maniera interessante, continuando a sfornare  grandi servizi istoriati.  Scomparsi  i  maestri più famosi, Nicola di Gabriele e Francesco Xanto Avelli, continua  a dominare il campo della ceramica Guido Durantino, che verso il 1550 assume l’appellativo di Fontana.  Il figlio Orazio lavora dapprima presso di lui, poi, a partire dal 1565, si mette per conto proprio.  La bottega opera ad alto livello.  Si ritiene infatti che qui sia  stato eseguito, fra il 1560 e il 1562,  il Servizio spagnolo, donato da Guidubaldo  a Filippo II,  illustrato con scene della vita di Giulio Cesare,  i cui disegni erano stati forniti da Taddeo e Federico Zuccari.  Già in precedenza si era verificato il caso di un pittore, Battista Franco, ingaggiato per fornire disegni ai maiolicari, i quali, secondo l’opinione del Vasari, se la cavarono benissimo  (le pitture  che in essi furono fatte non sarebbono state migliore, quando fussero state fatte a olio da eccellentissimi maestri), e di questi lavori il duca aveva mandato una credenza doppia all’imperatore Carlo V e una al cardinale Farnese, fratello della duchessa sua moglie. 

  All’epoca del servizio spagnolo cominciano a svilupparsi nella ceramica urbinate le grottesche su fondo bianco,  dette anche raffaellesche, spesso associate agli istoriati.  L’attribuzione preferenziale dei servizi  più famosi a Orazio piuttosto che a Guido si basa sul confronto con alcuni vasi firmati, ed è  sostenuta dalle affermazioni dell’urbinate  Bernardino Baldi il quale, nell’encomio che indirizzò alla fine del secolo a Francesco Maria della Rovere II[4],   definisce Orazio nobilissimo nell’arte  ceramica, e così apprezzato dal suo duca che questi inviava le credenze fatte da lui, come cosa rara, in dono a gran signori, fra cui il re di Spagna e l’imperatore.  Questa esaltazione di Orazio  non toglie però  che lo straordinario piatto Lehman con l’assedio di Castel Sant’Angelo[5] sia stato eseguito sicuramente, come attesta la scritta sul retro, presso Guido, e che il servizio Salviati  dei paesaggi e alcune delle grandi anfore biansate del corredo per la spezieria di Loreto appaiano eseguite dalla stessa mano.   Le incertezze attributive non sono dunque certo risolte, tanto più che la conoscenza delle altre botteghe attive in quel periodo continua a permanere scarsa.  Non è infatti realistico risolvere, come attualmente avviene,  l’intera produzione urbinate della seconda metà del cinquecento nel binomio Fontana-Patanazzi. Così dobbiamo considerare l’attribuzione ai Fontana del piatto con Noè che si ubriaca col vino appena scoperto del tutto tradizionale.  Il pittore, attivissimo,  ci sembra quello delle grandi anfore del servizio di Loreto e, forse, di parte del servizio Carafa.  Egli si esprime generalmente in maniera più raffinata, mentre il piatto Strozzi Sacrati  mostra un’esecuzione un po’ trascurata.  Sono tuttavia  riconoscibili il segno pittorico e i colori vivaci, nonchè la  fonte grafica di cui si serve abitualmente, le xilografie di Sebald Beham per le Biblische Historien pubblicate a Francoforte nel 1533

Orazio morì nel 1571, prima del padre che dovette modificare di conseguenza il testamento.  Guido a sua volta morì verso il 1576.  Dei Fontana rimase Flaminio[6], figlio di Nicola di Guido, che ereditò la bottega dello zio Orazio e proseguì un tipo di produzione affine , con istoriati e grottesche, su forme monumentali, fino verso la fine del secolo.  Risulta infatti ancora vivo nel 1591.  Un altro nipote di Guido, Camillo Gatti,  partì  da Urbino verso il 1561 per mettersi al servizio del duca di Ferrara, assieme al fratello Battista, e vi morì nel 1567.   

Alla bottega di Guido o di Orazio Fontana appartiene probabilmente il grande piatto con la Creazione di Eva, inserito in una splendida cornice lignea intagliata. La scena sembra far riferimento all’illustrazione con lo  stesso soggetto nelle



[1] J. Lessmann, Italienische Majolika, Katalog der Sammlung, Herzog Anton Ulrich, Braunschweig, 1979,  n.158 e nn.154-157.  Lo stesso pittore è riconoscibile anche in un piatto della Galleria Estense di Modena, anch’esso attribuito da Francesco  Liverani a Guido di Merlino (F. Liverani,  Le maioliche della Galleria Estense di Modena, Faenza 1979, n.10)

[2] Inv. 1003, in Bonali e Gresta, Girolamo e Giacomo Lanfranco dalle Gabicce Maiolicari a Pesaro nel secolo XVI, Rimini 1987 p.96-97

[3] P. Berardi, L’antica maiolica di Pesaro dal XIV al XVII secolo, Firenze 1984 p.181.

[4] Encomio della patria di Monsignor Bernardino Baldi da Urbino...al Serenissimo Principe Francesco Maria II, Urbino 1706,pp.130-131.  L’encomio sarebbe stato scritto verso il 1587 (v. G. Gardelli,  “Urbino nella storia della ceramica”, in T. Wilson ,  Italian Renaissance Pottery, London 1991 p.130. v. anche G.Zaccagnini, “Uno scritto inedito di Bernardino Baldi”, in Le Marche illustrate nella storia, nelle lettere, nelle arti I, 1902, pp.55-57).

[5] New York, Metropolitan Museum of Art, inv. 1975.1.1120, in J. Rasmussen, Italian Maiolica in the Robert Lehman Collection, New York 1989  n.97 p. 167

[6] Consegnò a Firenze, nel 1573, un grande servizio per Francesco e Ferdinando dei Medici, di cui molti esemplari sono tuttora al Bargello, ed è il probabile autore del rinfrescatoio della Wallace Collection (A.V.B. Norman, Wallace Collection.,  Catalogue of Ceramics IL  Pottery, Maiolica, Faience, Stoneware, London 1976 C 107 pp.218-223) firmatoFFF.

 

 

Figure del Vecchio Testamento del Maraffi, edite a Lione nel 1554 e illustrate da Bernard Salomon[1], pur con numerose modifiche che riguardano soprattutto il paesaggio.  Rispetto all’incisione infatti, nella maiolica  l’Eden acquista un fascino fiabesco, sottolineato dagli smaglianti colori, e diviene ricchissimo di alberi esotici, animali di ogni specie,  acque correnti. Bisogna rendere omaggio alla ricchezza immaginativa e alla gioiosa  creatività del pittore, che hanno reso il piatto così piacevole da ammirare nei suoi molteplici particolari.

Verso il 1580 compaiono nel panorama urbinate le ceramiche attribuibili con certezza ai Patanazzi.  In questa data Antonio firma   alcuni vasi del corredo di Roccavaldina, uno ancora nella sede originaria, l’altro nel Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza[2]..  I Patanazzi utilizzano lo schema decorativo dei Fontana, a medaglioni istoriati circondati da grottesche su fondo bianco,  utilizzano le stesse fonti grafiche   (ad esempio i disegni degli Zuccari) e  le stesse forme ceramiche, complesse e ricche di applicazioni plastiche , dalle fiasche da pellegrino con le volute simmetriche e il tappo a vite ai grandi vasi con anse modellate e  protomi leonine o mostruose.  Nella commissione di vasellame da farmacia per il convento di Loreto subentrano ai Fontana, poiché la parte più tarda del corredo si deve a loro .  E’ dunque probabile che esista una reale continuità fra le due botteghe.  Alcuni documenti mostrano che Antonio Patanazzi era legato commercialmente e per vincoli matrimoniali ai Fontana[3].  Il 6 maggio 1560 sono menzionati come parenti dei figli di Nicola di Gabriele Sbraghe sia Orazio di Guido Fontana che Antonio di Giovanni Patanazzi[4], e quest’ultimo può forse essere riconosciuto nell’Antonio da Urbino maestro figulo da vasi  socio di Orazio per commissioni a Torino negli anni 1562-‘64[5]

Ad Antonio spetta anche l’esecuzione, secondo un’ipotesi generalmente accettata, del servizioArdet aeternum , di cui sono presenti nella collezione Strozzi Sacrati un piattello e una coppa.  Il servizio viene così chiamato dall’impresa le cui fiamme alludono all’amoroso vincolo e al matrimonio fra il duca di Ferrara Alfonso II d’Este e Margherita Gonzaga, avvenuto nel 1579. Tale impresa si trova anche su una medaglia appositamente coniata in quell’occasione.[6] Cronologicamente il servizio non si discosta molto, probabilmente, dalla data del matrimonio, e fu eseguito da più pittori.  Se l’identificazione della bottega presenta un margine di incertezza, è invece sicura la provenienza urbinate, come attesta il nome della città scritto su un esemplare del museo del Bargello di Firenze[7].    E’ possibile che ai Patanazzi  vadano attribuiti anche il calamaio plastico con le allegorie delle quattro virtù cardinali, e la fiasca con  Mosè, Aronne e i suoi figli nel tabernacolo dell’Arca.  I calamai di questo tipo sono abbastanza comuni nella produzione urbinate dell’ultimo quarto del secolo, ed erano generalmente forniti di coperchio, sul quale spesso troneggiavano gruppi plastici di soggetto religioso o mitologico. All’interno degli scomparti sono dipinti gli strumenti  per scrivere, dalle penne d’oca ai coltelli per affilarle.  Anche le fiasche rientrano nella produzione corrente, e sono in origine dotate di tappo con chiusura a vite.

Rispetto a quelle urbinati, il numero delle maioliche faentine è senz’altro più limitato.  Si tratta però di esemplari   importanti, che forniscono spunti alla riflessione e uno stimolo a cimentarsi con alcune questioni estremamente controverse.    Se la bottiglia ornata alla palmetta persiana può essere considerata fra gli oggetti comuni della produzione fra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, il vaso datato 1506 è ben più interessante, e rientra in un ristretto numero di esemplari che potremmo definire a uccelli, per  il ricorrervi, entro un contesto decorativo a riccioli, scudi ed elementi zoomorfi,  di volatili di varie specie.  Ne fanno parte oggetti famosi, come il piatto contrassegnato dallo stemma della famiglia Gambara nella Galleria Estense di Modena[8], datato 1507.  Vaso e piatto sembrano appartenere alla stessa bottega, per la somiglianza nella stilizzazione degli uccelli e per il ripetersi del motivo a tondi allacciati rispettivamente attorno alla base del collo e attorno al cavetto.  Sulla faentinità del piatto Gambara, e quindi del vaso Strozzi - Sacrati, non è dato dubitare : il retro a petali di margherita tratteggiati trasversalmente  con una stella ad asterisco al centro è comunissimo nei frammenti di scavo .   Il passaggio dal vaso al piatto riflette la sempre più accentuata  adesione della maiolica faentina di alto livello al rinascimento, che si compie proprio in quel periodo, con l’abbandono graduale di ogni motivo gotico a favore di trofei e grottesche e con un maggior senso di simmetria nella distribuzione degli ornati. Nel vaso sono ancora presenti le fiamme, che successivamente diverranno sempre più rare.   Alcuni splendidi  piattelli di scavo di poco più tardi, conservati nel museo delle ceramiche di Faenza[9], nei quali il motivo a uccelli  appare più stilizzato ed è congiunto a mascheroni, cornucopie e delfini ricurvi, costituiscono il punto di passaggio alla elaborazione definitiva della famosa grottesca faentina, quale si manifesterà all’incirca negli anni venti. Il punto di arrivo nell’evoluzione di questo tipico ornato può essere indicato nel piattello di Cambridge con scena di



[1] Bernard Salomon, Creazione di Eva, in Damiano Maraffi, Figure del Vecchio Testamento con versi toscani, Lione 1554.

[2] In entrambi i casi si tratta di grandi anfore su base sagomata triangolare con due anse a forma di arpia, recanti su un lato lo stemma della farmacia (ovvero del  committente, l’aromatario Cesaro Candia),  e sull’altro, entro un medaglione contrapposto, una scena istoriata.

[3] Scatassa, Ercole,  “Vasai di Urbino o che vi lavorarono :  contributo alla storia delle majoliche nelle Marche”, in Arte e storia 27, pp.168-169.

 Gardelli, Giuliana,  “Urbino nella Storia della Ceramica”,  in Wilson, T., Italian Renaissance Pottery, London 1991  p. 131 ; Negroni, Franco, “Nicolò Pellipario ceramista fantasma”, in Notizie da Palazzo Albani, 1/1985 p. 19

[5] Gardelli  1991  op.cit.

[6] Pompeo Litta, Famiglie celebri italiane, II, Milano 1825, d’Este,  fig.34.  Un’impresa simile fu anche usata da Curzio Borghesi (v. Camillo Camilli, Impresse illustri di diuersi..., Venezia 1586 p.37),  ma il servizio viene generalmente riferito al duca di Ferrara. 

[7] G.Conti, Catalogo delle maioliche, Firenze 1971, n.28.

[8] Inv. 2006, in F.Liverani, Le maioliche della Galleria estense di Modena, Faenza ,1979, n.1. L’accostamento, evidentissimo, fu proposto per la prima volta dal Liverani

[9] Faenza, Museo internazionale delle ceramiche, inv. 7797 e 7798

 

 

probabile significato amoroso[1] , datato 1520,  nel quale gli uccelli sono spariti, ma gli altri elementi sono  tutti presenti : mascheroni,  cornucopie, delfini ricurvi affrontati e testine angeliche calve e sorridenti . 

Accanto alla produzione su fondo bianco, si afferma subito dopo il 1520[2] quella su  berrettino, in cui lo smalto viene reso azzurro mediante l’aggiunta di una piccola quantità di cobalto.  Si tratta di una delle fasi più interessanti nella maiolica faentina, che si prolungherà fin verso il 1540[3], e che va forse messa in relazione con il gusto per la monocromia e gli effetti luministici originati dalla pittura di  Polidoro da Caravaggio, e col diffondersi del chiaroscuro nella xilografia. Il fondo berrettino conferisce infatti  una particolare intonazione ai colori, che contrappuntano l’azzurro dominante creando equilibri insoliti, spesso rialzati da tocchi di un intenso rosso cinabro. Vengono prodotti servizi stemmati, di cui ci sono pervenuti soprattutto piatti,  più raramente forme chiuse come brocche,  fiasche o grandi coppe.  Gli ornati consistono in grottesche , frutta, trofei, festoni e rabeschi, ma anche  istoriati fra i più belli mai eseguiti .  Sono note le botteghe attive in quel periodo [4]:  i Pirotti e i Bergantini spiccano sulle altre per volume di documentazione e di affari, ma già dal 1531 si hanno notizie di Virgiliotto Calamelli, ed erano molto quotati anche i Viani e i Manara.  Sorprende la quantità della committenza toscana ;  gli stemmi delle grandi famiglie di Firenze compaiono spesso su questo tipo di maiolica, facendo supporre una vera e propria moda cui ha fatto da traino, forse, la presenza  in Romagna del Guicciardini[5], che volle per sé e per la moglie uno splendido servizio dipinto dal Pittore della coppa Bergantini. 

Sono qui presenti due piatti di un servizio prestigioso, contrassegnato dallo stemma di alleanza Strozzi-Ridolfi, con probabile riferimento al matrimonio fra Roberto Strozzi e Maria di Simone Ridolfi[6].  Attorno allo stemma, oltre la fascia di sottili rabeschi bianchi che giocano con la luminosità del fondo, si svolge, in una sinfonia di bianco, blu e azzurro, la tipica grottesca di Faenza, con le testine angeliche calve dai lobi frontali bene in vista , i delfini affrontati o addossati, i libri alati, le cornucopie bifide, che sembra essere stata appannaggio di quasi tutte le botteghe faentine dell’epoca.  O, per lo meno, non si è ancora proposta una distinzione credibile .  Né più la palla tagliata in croce che figura sul retro di entrambi i piatti , attorniata  simmetricamente dai quattro rosoni, sta a indicare la casa Pirota, la famosa bottega gestita all’epoca dai figli di Pirotto Paterni, Matteo, Gian Lorenzo e Gian Francesco.  Il Norman prima[7], e il Mallet[8] hanno ormai smantellato l’ipotesi cara al Ballardini[9], trasformando la ruota di fuoco in un più prosaico pallone da calcio.  La conseguenza è stata il crollo delle attribuzioni alla famosa officina, un tempo numerosissime, e il tentativo di ricominciare da capo, basandosi sulla forma e sull’ornato del retro dei due soli esemplari  recanti il nome della bottega[10].  Se infatti alcuni pittori  possono venire stilisticamente individuati, non danno però garanzie di aver operato sempre nella stessa bottega, e di conseguenza non serve partire dalle scene figurata per individuare la produzione di queste ultime.  

Al di là delle  discussioni sulle maioliche da attribuire a questa o quella manifattura, ben più interessante e problematica si presenta la discussione sui pittori, che non debbono necessariamente identificarsi con i proprietari, e che con ogni probabilità passavano dall’una all’altra offrendo i propri servigi.  Se questo avveniva a Urbino[11], è da credere che avvenisse anche a Faenza   . E’ su questi personaggi che deve focalizzarsi l’attenzione.  I loro passaggi da bottega a bottega determinano incertezze attributive, la collaborazione con i colleghi  e soprattutto la loro evoluzione nel tempo spesso induce gli studiosi a ipotizzare più autori, laddove in realtà ce n’era uno solo.  Sono inoltre quelli che subiscono più da vicino l’influenza della grande pittura, e non è da escludersi che siano pittori essi stessi di tele e affreschi, pur rimanendo verosimilmente nell’ambito provinciale.



[1] Cambridge, England, Fitzwilliam Museum, inv. EC.36-1942, in J.Poole,Italian maiolica and incised slipware in the Fitzwilliam Museum, Cambridge, Cambridge University Press,  1995, n.331 p.252-253.

[2] Fra gli esemplari più precoci è la targa con lo Spasimo di Sicilia, un tempo nella collezione Zschille, v. O.von Falke, Sammlung Richard Zschille, katalog der Italineischen Majoliken, Leipzig 1899 , datata 1521

[3] E’ probabilmente datato 1538 il piatto berrettino con Orfeo del Petit Palais di Parigi,  inv. Dutuit 1075, in C. Join-Dieterle, Musée du Petit Palais, Catalogue de Céramique 1, Hispano Mauresques, majoliques italienne, Iznik, des Collction Dutuit, Ocampo et Pierre Marie, Paris 1984 n.33 p. 120, anche se l’ultima cifra è poco leggibile.

[4] Carlo Grigioni  trascrisse una cospicua documentazione in una serie di articoli , v. ad esempio   “Documenti Serie Faentina, La Casa Pirota, in Faenza 1937, II, pp. 38-42 ; 1938, VI, pp.133-135 ; 1940, I-II, p.25-27 ; 1941, II pp.27-29 ; 1942, III-IV, pp.60-63, e “Documenti  relativi ai componenti le famiglie dei Bergantini  maiolicari faentini del cinquecento”, in Faenza  XVII, 1939, I-II, pp. 10-26, preceduto da un saggio di Giuseppe Liverani sullo stesso argomento.   La documentazione del Grigioni arriva fino al 22 aprile 1528.  Per una sintesi sull’argomento, v. J.V :G :Mallet, “Au Musée de Céramique a Sèvres :  majoliques historiées provenant de deux ateliers de la renaissance”, in La revue du Louvre et des Musées de France, 1996, n.1, p.45-50.

[5] Francesco Guicciardini  il 6 aprile del 1524 fu nominato Presidente dell’Esarcato di Ravenna e della Privincia di Romagna innome del Papa, il 6 maggio ne assunse il governo fino al gennaio 1926.  Fra le residenze, che mutò spesso, una dellepreferite era Faenza.  Con lui era la moglie Maria Salviati, sposata nel 1506.  Il servizio, datato 1525, fu forse un dono della città (v. G. Ballardini, “Un servizio di maiolica con lo stemma di Francesco Guicciardini”, in Faenza XXVIII, 1940, I-II, p.3-9, e F. Cioci, “L’epigrafe sul boccale (un dono importante)”, in Faenza LXXVIII, 1992,  V-VI, pp.257-270

[6] P.Litta, Famiglie celebri italiane, fascicolo 68 (Strozzi di Firenze), parte I, Milano 1875, tav.IV.

[7] A.V.B.Norman, “A note on the so-clled Casa Pirota mark”, in Burlington Magazine III, 1969, pp.447-8.

[8] J.V.G.Mallet, “Maiolica at Polesden Lacey, 1” in Apollo, Ottobre 1970, p.264.

[9] G.Ballardini, “Alcune marche di Ca’ Pirota”, in Faenza XXVIII, 1940, IV, p.66-72.

[10] Si tratta dell’alzata su basso piede con Giuseppe che ritrova la coppa nel sacco di Beniamino del museo di Sévres e di quella con la scena di incoronazione del Museo Civico Medievale di Bologna,  priva di parte della parete.

[11] V. il documento citato alla nota n.   

 

 

A Faenza,  in particolare, l’istoriato assurge a un livello molto alto.  Si tratta di un fenomeno meno appariscente rispetto a quello urbinate, non così dominante nell’ambito della produzione conosciuta,  ma anche meno meccanicamente dipendente dalle fonti grafiche più diffuse.  Trovare le fonti dell’istoriato urbinate è un’utile forma di ginnastica visiva, un esercizio di memoria per individuare le stampe e vedere come il maiolicaro le ha modificate o addirittura assemblate, come avviene nel caso dell’Avelli.  E’ raro , per gli oggetti urbinati, non ritrovare la fonte, e quando questo avviene c’è sempre il sospetto che la stampa ci non sia pervenuta.  Gli urbinati hanno trovato una miniera, nelle stampe e nelle illustrazioni dei libri, e pur modificandole ne dipendono sostanzialmente.  Il fenomeno non è naturalmente sconosciuto ai faentini, ma non in maniera così scontata.  La dipendenza dalle fonti grafiche esiste senz’altro (capita anche per la grande pittura),  ma spesso ci accorgiamo che non è così facile arrivarci, e vi è talvolta il sospetto fondato che si tratti di composizioni originali. 

Anche la qualità dell’esecuzione è spesso notevole.  Paragonando la maiolica cinquecentesca alla produzione pittorica complessiva della città, viene il sospetto che nella prima si siano esercitate le forze creative migliori, rimanendo la seconda nel complesso poco significativa.  E’ nella maiolica, ad esempio, che si manifesta un legame profondo e vivificatore con la pittura bolognese,   assai meno evidente nella contemporanea produzione a olio o fresco .

I contatti tra la maiolica faentina e  l’ambiente artistico bolognese non sono una novità cinquecentesca, ma risalgono alla fine del secolo precedente, perlomeno all’epoca della decorazione della cappella Vaselli.  Qui sono rappresentati, come in una sintesi, tutti i principali aspetti della pittura bolognese dell’epoca, avendovi operato il Costa e il Francia, mentre per la pala, un tempo attribuita al Ripanda, viene oggi proposto il nome di Guido Aspertini, fratello del più famoso Amico[1]. Qui è anche collocato il più famoso pavimento in maiolica della storia  faentina, la cui decorazione  va vista globalmente, secondo un progetto che comprende le vetrate con i santi patroni di Bologna, la pala raffigurante il martirio di San Sebastiano, l’Annunciazione e gli apostoli ai suoi lati, le tarsie. Gli artefici del pavimento debbono avere avuto delle direttive a livello iconografico.  Non si spiegherebbe altrimenti l’insistenza sul tema del contenitore, in rapporto al nome del committente, e la presenza di tematiche alchemiche e neoplatoniche che trascendono le possibilità dei ceramisti[2], e del mascherone da grottesca in data così precoce per l’arte applicata.

Non si tratta dunque della semplice esecuzione, a Faenza, di una grande quantità di mattonelle secondo uno standard già sperimentato, da trasportare poi a Bologna come avrebbero potuto essere trasportate in qualunque altro luogo, e del tutto avulse da un contesto. Nell’eseguire il pavimento si ha al contrario l’impressione che i maiolicari abbiano sì dato fondo al loro consueto repertorio, ma  anche ricevuto suggerimenti precisi per arricchirne il significato enciclopedico, ed  tratto dal cantiere della cappella una spinta verso un livello superiore. Il cantiere Vaselli è dunque stata una grande occasione di contatto e di  scambio fra arti maggiori e applicate in uno dei momenti più vitali e compositi per Bologna e per Faenza[3].

E’ a partire dal Vaselli che prende l’avvìo la grande stagione dell’istoriato faentino, e non sorprende quindi che i pittori guardino alla composita cultura figurativa bolognese.   Tutti i filoni vengono esplorati.  Il Maestro CI e Baldassarre Manara preferiscono la maniera dolce e un po’ melensa della corrente che si pone al seguito di Raffaello.  Ma è la linea aspertiniana, aspra e espressionistica, che prevale negli altri.   Nella stagione del berrettino, dalla composita personalità del Maestro verde si sono staccate individualità ben definite, primo fra tutti il sulfureo Pittore della coppa Bergantini,  il più interessante, aspertiniano in maniera evidente. Un confronto con i disegni del codice Wolfegg (circa 1503-1504) è impressionante Le durezze del pittore bolognese, le sue forzature espressive al limite del caricaturale si ritrovano puntualmente nel  linguaggio del maiolicaro che il Rackham accostò al Signorelli, ma che ci sembra  in realtà ben più dipendente dai modi di Amico.  Certi aspetti leonardeschi nelle fisionomie, i visi grifagni e le teste urlanti della battaglia di Anghiari, che l’Aspertini recepì forse durante un viaggio a Firenze compiuto nel suo periodo lucchese e  sviluppò, ad esempio, nei cantori che trasportano il Volto Santo degli affreschi di San Frediano[4] hanno sicuramente influito sul pittore che dipinse la coppa con la battaglia fra i Lapiti e i centauri del British Museum di Londra. 

Pur appartenendo ad altra mano, anche l’albarello Strozzi Sacrati  con Diana e Atteone, contrassegnato dallo stemma estense[5], condivide questo legame stilistico. Secondo l’opinione di Giuseppe Liverani, che condividiamo pienamente, il pittore va accostato stilisticamente a una coppa della Galleria Estense di Modena datata 1526 e ad una datata 1527 del Petit Palais di Parigi con la Caduta di Fetonte[6].  Si tratta in entrambi i casi di opere attribuibili, a causa delle strette analogie stilistiche[7], al Pittore di Giuseppe che ritrova la coppa nel sacco di Beniamino, [8] così chiamato perché autore della coppa del Musée national de la céramique di Sèvres, eseguita nel 1525 nella  Casa Pirota, uno dei due esemplari su cui è scritto il nome della bottega . Al suo repertorio, che comprende il Marco Curzio dell’Hermitage, la Salomé con la



[1] M. Ferretti, “In cerca di Guido Aspertini”,  in Arte a Bologna, bollettino dei musei civici d’arte antica,  3, Bologna 1993, pp.35-63.

[2]   Il teschio, il vaso rotto, l’uccello che si innalza dal pozzo appaiono dettati da un’intenzione precisa, come pure la presenza di Eros legato e bendato, con le armi  rotte dopo la lotta con Anteros

[3] Amico Aspertini è fra i primi ad utilizzare la grottesca negli affreschi da lui eseguiti nel castello di Gradara, alla fine del quattrocento, avendo  preso familiarità con questo motivo decorativo durante il suo precedente viaggio a Roma.

[4] Per uno studio fondamentale e che sintetizza anche quelli precedenti, e fornisce una abbondante quantità di immagini, v. M. Faietti,  

[5] Inquartato, nel I e nel IV dell’impero ; nel II e III d’azzurro, a tre gigli d’oro, con la bordura inchiavata d’oro e di rosso

[6] Parigi, Museo del Petit Palais, inv. Dutuit 1059, in C. Join -Dieterle,  op.cit. 1984, n. 32 p.118-9

[7] J.V.G.Mallet,  “Au  musée de céramique a Sèvres :  majoliques historiée provenant de deux ateliers de la renaissance”, in La revue du Louvre et des Musées de France n.1, 1996, p. 50. 

[8] Inv. MNC24734

 

 

testa del Battista del Kunstgewerbemuseum di Berlino e la Lavanda dei piedi un tempo nella collezione Damiron di Lione, va  aggiunta la targa con gli Apostoli e la Madonna della Walters Gallery di Baltimora [1] Il legame fra questo sconosciuto pittore e la cultura figurativa bolognese è già stato più volte avvertito, e  messo  in relazione con i disegni del taccuino  conservato nel Musée de Beaux-arts di Lille, firmato Jacopo da Bologna[2].  Ci sembra tuttavia che, con le fisionomie asciutte, le  membra seccamente delineate, i visi espressivi, gli atteggiamenti enfatici, senz’altro comuni anche al taccuino di Lille, egli si accosti con evidenza anche maggiore  all’ Aspertini, pur non cogliendone, come invece fa il pittore della coppa Bergantini,  le sfumature un po’eccessive e ai limiti del grottesco.

Un altro splendido esemplare di istoriato su berettino è fornito dal piatto con il trionfo di Galatea, mancante di parte della tesa.  Pur derivando iconograficamente da Raffaello, la scena si distingue per una tensione michelangiolesca, e per il segno vigoroso.  Colpisce  l’affinità fra quest’opera sicuramente faentina, malgrado l’insolita stilizzazione delle fogliette alla porcellana del retro, con la famosa targa con lo Spasimo di Sicilia del Victoria and Albert Museum di Londra, uno dei quesiti irrisolti della tormentata vicenda del monogrammista F R, la cui firma compare  su una mattonella quadrata posta ai piedi del Cristo[3].  Anche in questa targa, come nella Galatea, un’immagine di origine raffaellesca è trasposta sulla maiolica con forza e competenza pittorica insolite per l’arte applicata, mentre il paesaggio del fondo, reso con piccoli punti che lo fanno apparire nebbioso, e gli alberi sagomati in zone lobate quasi piatte rientrano nella tradizione faentina, benchè attualmente si tenda ad allontanare del tutto da Faenza il monogrammista, e a limitare la sua presenza all’ambiente urbinate.   

L’influenza bolognese perdura all’incirca fino verso gli anni quaranta.  La successiva evoluzione verso il compendiario denota una caduta di interesse in questa direzione, mentre  acquista maggior importanza l’ influenza  toscana .  Il cantiere di Palazzo Vecchio a Firenze, diretto dal Vasari, appare infatti di grande importanza anche per l’evoluzione pittorica della ceramica faentina.  Qui si elaborano le basi di questo stile,  mediante lo sviluppo di una pittura veloce, sintetica, che prende le mosse dalle storie bibliche delle logge raffaellesche e si pone come obiettivo la vivacità espressiva .  In questo  cantiere opera il faentino Marco Marchetti [4], autore delle grottesche dei pilastri nelle quali, trattandosi di decorazioni accessorie, l’aspetto sintetico ed espressivo si enfatizza, giungendo ad espressioni  assai spinte e vicinissime a quelle che poi ritroveremo sulla ceramica.  La collezione Strozzi Sacrati comprende numerosi esempi compendiari cinque e secenteschi, fra cui spiccano alcune alzate contrassegnate dallo stemma Strozzi  fra due tenenti in forma di putti che reggono ramoscelli.  In essi si manifesta nella maniera più caratteristica quel tipo di pittura luministico e quasi schizzato che riprende la denominazione in uso per certe pitture pompeiane.  I colori si riducono, il bianco di fondo viene valorizzato, la forma tende a complicarsi fino al virtuosismo del traforo. 

Questo nuovo stile, tuttavia, nella seconda metà del cinquecento deve competere all’interno delle stesse botteghe con gli ornati policromi, in particolare i grandi quartieri colorati e le foglie di vite, dimostrando di non essere una reazione all’eccessivo cromatismo, come un tempo si soleva dire, ma soltanto una opzione, anche se vincente.   L’albarello con la scritta CVRCVMA , databile circa alla metà del secolo esemplifica bene questa produzione che venne anche molto esportata, specie in Sicilia. 

Nell’istoriato  l’influenza del compendiario si manifesta talvolta con la riduzione dei colori alla gamma giallo-blu, la cosiddetta tavolozza languida.  Anche qui tuttavia non mancano  esempi in cui la policromia accesa esalta la sintesi del segno, e la bottega di Virgiliotto calamelli, fra le prime ad adottare la moda dei Bianchi, è anche quella che ospita il maestro Pier Paolo, autore di storie elaborate, dai  vivaci colori e assai vicine alla maniera urbinate. Di questo straordinario maestro è qui visibile un grande piatto con la Raccolta della manna, datato 1567, recante la sigla VR AF di Virgiliotto.  L’opera non è isolata, poiché lo stesso anno  Pier Paolo dipinge, presso la stessa bottega, un altro grande piatto con il Parnaso, sul cui retro è la scritta M° PER/PAVOL/ENFAENCHA 1567, mentre dieci anni prima   Pier Paolo aveva firmato una Morte di Virginia, anch’essa eseguita a Faenza[5]. Qui  non si fregiava ancora del titolo di maestro, e latinizzava il proprio nome,Petrus Paulus.   Ci troviamo di fronte a un pittore di grande abilità, che trascende quella consueta dei decoratori su maiolica.  Egli spazia liberamente dai temi biblici a quelli mitologici a quelli tratti dalla storia romana, modificando profondamente le proprie fonti,come avviene nel Parnaso. 

Sulla sua identità  fa tuttora testo la proposta del Ballardini, che riteneva potesse trattarsi di Pietro Paolo Stanghe, ceramista faentino di cui riferisce il Campori nella sua opera sulla ceramica ferrarese[6].   Pietro Paolo Stanghi perì



[1] J. Prentice von Erdberg - M. Ross,  Catalogue of the Italian Majolica in the Walters Art Gallery, Baltimore, Maryland, 1952 n.4

[2] Mallet, op.cit. 1996 p. 48 ; T. Wilson, “Girolamo Genga , designer for Maiolica ?”, in T. Wilson,  Italian Renaissance Pottery, Papers written in association with a Colloquium at the British Museum , Londra 1991,  p. 159.  .

[3] Lo stesso Rackham, malgrado l’evidenza della firma, ammetteva di avere con molta fatica accettato l’attribuzione della targa, che appare anomala nel repertorio di un pittore che è, con ogni probabilità, l’Avelli nella sua fase giovanile (B. Rackham , “Xanto and ‘F R’ : an insoluble problem”, in Faenza XLIII, V, 1957 p.99).

[4] A. Cecchi, “Pratica, fierezza e terribilità nelle grottesche di Marco da Faenza in Palazzo vecchio a Firenze”, in Paragone anno XXVIII, I, n.327, maggio 1977, pp.24-54 ; II,  n.329, luglio 1977, pp.3-26.

[5] C. Ravanelli Guidotti, “Le ceramiche delle collezioni rinascimentali” in C. Stella, Ceramiche nelle civiche collezioni bresciane, Bologna 1988 , n.21b, p.132.  La scritta sul retro, tracciata in caratteri corsivi, è la seguente : Come uirginea/fu Amazata dal/proprio Padre inati/a Cesare imperatore P/auere disubedito al precetto suo fatto. Rom/ana era, e si conclude con due motivetti arricciati seguiti da punti, che probabilmente corrispondono a un etcetera.  Segue separata da una linea orizzontale, la firma petrus paulus facit fauentie e la data 1557.  

[6] G. Ballardini, “Note intorno ai pittori di Faenza della seconda metà del cinquecento”, in Rassegna d’arte antica e moderna, Milano, anno III, fasc. IIII, 30 marzo 1916, p. 65 ; B. Campori,  Notizie storiche e artistiche della maiolica e della porcellana di Fferrara nei secoli XV e XVI, Modena, 1871 p.35 ; C. Ravanelli Guidotti, op.cit.

 

 

tragicamente in seguito alla repressione con cui l’autorità religiosa tentava di estirpare dalla città di Faenza il germe della Riforma, che vi allignava, pare, più che in qualsiasi altro posto.  Denunciato, assieme ad altri, da Salvatore Panettini nel febbraio-marzo 1567 ed accusato di frequentare gruppi sospetti di eresia.  Non era la prima volta, perché già in passato aveva abiurato in San Domenico per salvarsi da accuse simili [1] .  Questa volta le conseguenze  furono per lui fatali.  Mentre  altri vennero liberati, egli fu condannato a morte e murato vivo nello stesso anno.

Le vicende biografiche e la personalità dello Stanghi ci fanno dubitare fortemente che egli possa essere identificato col Maestro Pier Paolo pittore di maioliche.  Un soggetto pagano come il Parnaso ci sembra improponibile per un seguace della riforma,  E’ vero che il luteranesimo  degli eretici faentini aveva spesso connotazioni generiche e imprecise sotto il profilo dottrinale,  ma uno degli elementi comuni era l’avversione alle immagini, che colpiva sia quelle  religiose che quelle sospette di paganesimo , anche se destinate a oggetti d’uso.  I vasai Habaner che, originari di Faenza e fuggiti a causa delle persecuzioni religiose, trapiantarono nell’Europa orientale la maniera dei Bianchi in forme spesso assai aderenti agli originali, evitarono però rigorosamente  di raffigurarvi puttini alati o figurette armate  in vesti classiche, sostituendoli con mazzi fioriti o altri motivi non sospetti[2]. Nel caso dello Stanghi invece ci troveremmo di fronte a un eretico o simpatizzante di eresia  (e quasi certamente innocente non era, poichè recidivo e condannato alla massima pena) che non esita a dipingere un soggetto chiaramente pagano nello stesso anno in cui è condannato a morte per la sua adesione alla Riforma. 

C’è inoltre da prendere in considerazione  la collaborazione con Virgiliotto.  I grandi imprenditori - Calamelli, Mezzarisa, Bettisi - non risentirono delle purghe ereticali, mentre vi fu esposto il ceto medio-basso  dei ceramisti faentini[3]. Le grandi famiglie continuarono tranquillamente a produrre servizi per committenti  reali di fede cattolica o per principi della Chiesa.   Dovevano però fare una estrema attenzione a non essere coinvolti nemmeno marginalmente nelle questioni di eresia, e a dimostrare costantemente la propria intatta ortodossia cattolica, specie dopo che nel 1566 era stato eletto papa Pio V, ex inquisitore, ben al corrente della situazione faentina e deciso a risanarla.  Solo così potevano far prosperare i loro affari, in una situazione di pericolo che non risparmiava nemmeno personaggi importanti, se davano adito a sospetti[4]. Ci sembra dunque  improbabile che proprio nel 1567 Virgiliotto abbia impiegato presso di sé un personaggio dubbio come lo Stanghi e gli abbia permesso di firmare l’ opera assieme alla sigla della propria bottega, come avviene nel Parnaso.  Sarebbe stata un’imprudenza, mentre tutta la sua carriera ce lo mostra invece imprenditore oculato e assai bene inserito.  A nostro avviso, dunque, il problema relativo all’identità di Maestro Pier Paolo è ancora completamente aperto, e non sarebbe male indagare fra i pittori minori romagnoli legati alla Controriforma.  Tanto più che lo stile già sintetico di Pier Paolo ci sembra evolvere in soluzioni pienamente compendiarie su oggetti senz’altro successivi alla morte dello Stanghi, alcuni dei quali eseguiti presso la bottega di Don Pino.

Per concludere, un accenno alla Toscana.  La collezione Strozzi Sacrati comprende due tondi rispettivamete con lo stemma degli Strozzi e con la Vergine e il Bambino, che costituiscono un esempio ammirevole della produzione dei Della Robbia.  Nel campo del vasellame vero e proprio, sono di notevole interesse i boccali con decorazione di tipo moresco, stile che si è affermato con particolare vigore in Toscana per via degli scambi intensi e continui con la Spagna attraverso il porto di Pisa.  Si tratta di produzione della seconda metà del secolo XV che, pur profondamente influenzata dalle maioliche spagnole nei motivi finemente arabescati, non utilizza però il lustro.  Il  Cora [5] tendeva a collocarla a Firenze e dintorni, mentre attualmente sembra sia stata eseguita piuttosto dalle fornaci di Montelupo, dove è comune nei reperti del Pozzo dei lavatoi[6].  Fra le tipologie  spicca quella chiamata Santa Fina, perché ben rappresentata nella spezieria dell’ospedale omonimo a San Gimignano.  Il boccale a occhio di penna di pavone e fogliette, anch’esso montelupino, è probabilmente già cinquecentesco, e mostra la versione rigida e geometrica tipicamente toscana di questo motivo tardo gotico che altrove compare già nella seconda metà del secolo precedente con stilizzazioni ben più eleganti.  Anche se la presenza dello stemma fa riferimento a famiglie illustri, si tratta comunque di oggetti d’uso, destinati alla tavola, e probabilmente acquisiti anche per i collegamenti araldico-familiari.  E’ infatti caratteristico della collezione Strozzi Sacrati  testimoniare il sentimento familiare, che ha indotto a prediligere gli oggetti stemmati, unita però a una curiosità intellettuale e a un infallibile senso della qualità che la rendono una fra le più belle e interessanti presenti in Europa. Merita veramente un approfondimento specialistico, che si concretizzerà subito dopo la fine della mostra nel convegno ad essa dedicato.



[1]  Per notizie generali sulla situazione faentina all’epoca della Controriforma v. F. Lanzoni, La Controriforma nella città e diocesi di Faenza, Faenza 1925. La data della denuncia del Panettini si desume dal fatto che viene citata come avvenuta di recente la captura del predicator di s.Augustino, v. M.G. Trere,  “Gli avvenimenti del sedicesimo secolo nella città di Faenza con particolare riguardo ai processi e alle condanne degli inquisiti per eresia”, in  Studi romagnoli, VIII (1957), Faenza, pp.287. Per Mons. Lanzoni  l’atto di accusa fu redatto  poco dopo il gennaio di quell’anno, forse febbraio (F. Lanzoni, , “I nuovi documenti sui ‘luterani’ faentini”, in Bollettino diocesano di Faenza,  XIII,1926, pp.176-180 ; e XIV, 1927, pp.81-86.  Id., “Nuovi documenti dei ‘luterani’ faentini del sec.XVI”, in Valdilamone I-II, 1927.  Il Panettini divide gli eretici faentini indue gruppi detti  setteconventicule,  reducti  etc.  Nel primo gruppo vi sono Melchiorre Biasini, Enea Utili, Pier Paolo Stanghi, tutti e tre maiolicari...Battista Malesi...maiolicaro...Jacopo Bertuzzi pittore amico dello Stanghi.  Il maiolicaro Battista Pascoli o Zagotta fu probabilmente prosciolto.  Baldassarre, figlio di Enea Utili, e Sebastiano Cavallari nel 1570 avevano ottenuto la libertà.

[2] P. Marsilli, “Ceramiche e ceramisti fra Italia, Austria e Germania alla metà del XVI secolo “ in B. Roeck, K. Bergdolt , A.J.Martin, Venedig und Oberdeutschland in der Renaissance.  Beziehungen zwi schen kunst und wirtschaft,  Sigmaringen, 1993, p.14.

[3] Marsilli  op. cit. 1993 p.11-12.

[4] Come, ad esempio, il medico ben noto e ben protetto Giovanni Evangelista Nicolucci, poi Rilasciato (Lanzoni, op.cit., 1925 pp.78-80)

[5] G. Cora, Storia della maiolica di Firenze e del contado secoli XIV e XV, Firenze 1973,  I , p.132 (gruppo VII) ; II, tavv. 141 a e b, 166 a e b, 223 a e b.

[6] G. Vannini, La maiolica di Montelupo.  Scavo di uno scarico di fornace, Montelupo 1977 ;  F. Berti , G. Pasquinelli, Antiche maioliche di Montelupo secolo XIV-XVII,  Pontedera  1984 ; F. Berti, La maiolica di Montelupo secoli XIX-XVIII, Firenze 1986.

 

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