NUOVI ARRIVI NELLA COLLEZIONE MATRICARDI

FIG.1
FIG.1
FIG.1b
FIG.1b

FIG.2  

FIG.2a
FIG.2a
FIG.2b
FIG.2b
FIG.2c
FIG.2c
FIG.2d
FIG.2d
FIG:3
FIG:3
FIG:3a
FIG:3a
FIG.3b
FIG.3b
FIG.4
FIG.4
FIG.4a
FIG.4a
FIG.4b
FIG.4b
FIG.4c
FIG.4c
FIG.5
FIG.5
FIG.6
FIG.6
FIG.6a
FIG.6a
FIG.6b
FIG.6b
FIG.7
FIG.7
FIG.7a
FIG.7a
FIG.7b
FIG.7b
FIG.7c
FIG.7c
FIG.8
FIG.8
FIG.8a
FIG.8a
FIG.9
FIG.9
FIG.10
FIG.10
FIG.10a
FIG.10a
FIG.11
FIG.11
FIG.11a
FIG.11a
FIG.11b
FIG.11b
FIG.12
FIG.12
FIG.12a
FIG.12a
FIG.13
FIG.13
FIG.13a
FIG.13a
FIG.13b
FIG.13b
FIG.14
FIG.14
FIG.15
FIG.15

 

 

La  Matricardi[1] è una collezione aperta, che continua ad arricchirsi acquisendo sempre nuovi esemplari. Lo scopo è quello di rappresentare nella maniera più completa possibile la storia e l’evoluzione della maiolica di Castelli. Tuttavia sempre più si evidenziano delle aree particolari, che rispecchiano interessi precisi del collezionista: ad esempio, la fase piuttosto controversa a ridosso della tipologia Orsini-Colonna, che ne segna gli immediati precedenti e gli inizi. In quest’area si colloca l’albarello con i manici a torciglioni e i due profili muliebri contrapposti (fig.1). La forma, i colori e la distribuzione decorativa sembrano indicarne l’appartenenza all’Orsini-Colonna. Tuttavia il modo sommario di tracciare gli ornati di contorno e gli stessi profili, la pesantezza con cui sono sottolineati i lineamenti con tratti di colore arancio ne fanno un oggetto diverso dagli altri, con caratteristiche proprie. Malgrado la diversità dei colori, vi è una forte relazione stilistica con gli albarelli del gruppo B, di cui la collezione Matricardi possiede ben tre esemplari. Con essi condivide la resa semplificata dei visi, i nasi dritti, le pupille a spillo. Un’altra relazione evidente è con un piatto nella stessa collezione su cui è dipinta una “Bella” [2] (fig.1b). I colori del piatto sono sostanzialmente gli stessi, e i motivi attorno alla tesa sono molto simili a quelli sul collo dell’albarello. La “Bella” è databile, anche per alcune caratteristiche dell’abbigliamento, attorno agli anni ’40-’50 del Cinquecento, e probabilmente la stessa data è da riferirsi all’albarello. 

Pienamente Orsini-Colonna è invece il vaso dal ventre globulare su piede alto (fig.2,2a), con due manici a torciglioni dipinti di un blu brillante. Benché la forma sia quella comunemente associata al pilloliere, in questo caso era destinato a contenere il Diacoro di Mesue, un elettuario dolce ottenuto con l’àcoro, il calamo aromatico, mescolato e bollito con  altri ingredienti. Era afrodisiaco e utile per alcune malattie nervose. 

Piuttosto insoliti  sono i motivi a circoli che ornano il collo del vaso, come il fatto che la parte posteriore sia lasciata del tutto bianca, senza i racemi blu che in genere ornano i retri di questa tipologia. Al centro, entro un riquadro, è dipinto un giovane di profilo riccamente abbigliato. E’ tracciato con un segno forte, i lineamenti sono definiti da ombreggiature decise, su uno sfondo riempito a tratteggi. E’ di particolare interesse il cappello che indossa, grande, basso, tagliato in tre punti fino a farne un antenato del tricorno. E’ posto sopra una reticella che  raccoglie i capelli. Per limitarci alla maiolica, questo tipo di copricapo, arricchito da nastri, si trova su due albarelli del gruppo Bo in collezione privata tedesca (fig. 2b,2c) [3]: in uno di essi è indossato, nell’altro il giovane in piedi lo tiene in mano, evidenziandone la struttura. Ricorre anche su un albarello del British Museum di Londra decorato “alla porcellana colorata” (fig. 2d). Quest’ultimo esemplare non è datato, ma la data ricorrente sulla tipologia cui appartiene è il 1548.  Porremmo dunque anche il vaso Matricardi attorno alla metà del secolo, data verso la quale sembrano convergere tutte le manifestazioni precoci legate all’Orsini-Colonna.

Stilisticamente vicina, forse dello stesso pittore, è la bottiglia con i due profili sovrapposti, maschile e femminile (fig. 3,3a). L’iconografia, che celebra la coppia alla cui unione l’oggetto è dedicato, è frequente nelle medaglie, mentre nella maiolica è  adottata più di rado. Se ne conoscono esempi nelle mattonelle che compongono il pavimento di Parma, ma è praticamente assente nel vasellame Orsini Colonna, e costituisce quasi un unicum. La bottiglia ha subìto parecchie traversie, nel corso delle quali ha perso il collo e i manici. Da quanto rimane è però possibile ricavare l’ altezza originale, che doveva essere attorno ai 41-42 cm.  La bottiglia era destinata a contenere Acqua di lattuga (AQUA LACTUCE),  con azione calmante e diuretica.  L’autore è spesso  presente nel vasellame Orsini Colonna. Gli appartiene, ad esempio, un vaso biansato nel museo delle ceramiche di Castelli (fig. 3b). Egli dipinge profili di donna dalla fronte bombata, il naso piccolo e la bocca spesso sorridente, che recano sul capo un fazzoletto annodato che lascia scoperta una ciocca di capelli.   

Ma l’esemplare di maggiore spicco fra quelli entrati di recente nella collezione Matricardi è sicuramente una grande conchiglia stemmata turchina (fig. 4,4a,4b,4c). Lunga 31 centimetri, larga 35 e alta 9, pesa un chilo e ottocento grammi ed è decorata nella parte concava con tralci di fiori quadripetali in oro alternati a ghirigori in bianco, che si dispongono lungo le costolature. Al centro è uno scudo interamente dorato, sormontato da un cappello da cui pendono sei fiocchi per parte. Per quel che ci risulta, la forma è unica fra le Turchine[4]. Difficile dire quale fosse la destinazione d’uso. La conchiglia ha un diretto collegamento simbolico con l’acqua:  acqua benedetta, acqua battesimale. E’ compatibile anche con il bacile da barba, a sua volta contenitore di acqua. Tuttavia la bellezza e la complessità dell’oggetto e l’abbondanza di oro, che è molto delicato e tende a rovinarsi, mentre qui è ancora perfetto, darebbero più l’idea di un centro tavola  puramente decorativo. Lo stemma  è campito in oro, ma si intravvede la sagoma di alcuni gigli araldici, secondo la caratteristica disposizione dei Farnese:  3, 2, 1. Forse il pezzo ha avuto problemi in cottura, e i gigli non hanno acquisito il risalto voluto. La loro presenza, anche se poco evidente, e quella del cappello cardinalizio indicano quale probabile committente il cardinale Alessandro Farnese, cui era destinato  un importante servizio turchino. Il modo con cui è timbrato lo stemma e i particolari della decorazione, con i grandi fiori frastagliati in oro, si ritrovano spesso in questo servizio, databile all’incirca fra il 1580 e il 1585 e attribuito dubitativamente a un Antonio della famiglia Pompei [5].

Le Turchine costituiscono un aspetto, in prevalenza ancora cinquecentesco e fra i più affascinanti, del Compendiario castellano,  di cui la collezione Matricardi  comprende esempi di grandissimo pregio. A rappresentare la produzione compendiaria più tarda si aggiunge ora questa targa devozionale datata “1622” (fig.5)[6]. Vi è raffigurato il Crocefisso su un trimonzio, che in questo caso non è araldico ma allude probabilmente alle tre croci che  furono issate sul Golgota. Ai piedi della Croce la Maddalena ne abbraccia la base guardando il Cristo. A sinistra è raffigurato Sant’Andrea, in piedi, con una croce sulla spalla, che stringe un libro e ostenta due pesci, poiché  in origine egli era  un pescatore. A destra è san Carlo Borromeo, dall’inconfondibile fisionomia, in atteggiamento orante. Il santo era stato canonizzato una decina d’anni prima che fosse eseguita la targa, e godeva di grande venerazione a Castelli. E’ possibile che la scelta dei santi sia dovuta a una precisa richiesta del committente, che aveva in loro i propri eponimi.

La grande tradizione dell’istoriato castellano sembra aver origine verso la metà del Seicento con l’opera di Francesco Grue. In ritardo rispetto all’istoriato degli altri grandi centri italiani, nei quali è ormai in pieno declino, ha tuttavia un enorme sviluppo, distinguendosi per i colori tenui, filtrati attraverso quelli del compendiario. A Francesco può forse essere attribuita questa coppa con i Gemelli, uniti per la schiena [7] (fig.6,6a). Si ispira a una stampa di Diana Ghisi Scultori del 1577, basata su un disegno di Raffaellino da Reggio (fig. 6b). Un’alzata con lo stesso soggetto, eseguita tuttavia in modo più rigido, si trova nelle collezioni del Castello Sforzesco di Milano, attribuita alla bottega di Francesco Grue [8]. Se paragoniamo l’alzata di Milano con quella in esame, le differenze sono notevoli.  Qui Francesco adotta una maggior morbidezza del segno, e le fisionomie dei gemelli ci sembra possano essere raffrontate con quelle nel pannello con la Madonna di Loreto e santi, siglata e datata 1647 e ancora più con quelle nel piatto, forse di poco più tardo, con l’incontro fra Ciro e Alessandro del Museo Acerbo di Loreto Aprutino. Potremmo dunque collocare l’alzata Matricardi attorno agli anni 1650-‘60. Da un punto di vista iconografico è’ interessante notare che, rispetto alla stampa, il maiolicaro si è preso alcune libertà: quello che era un uccello nella mano di uno dei bimbi è diventato un pesce[9], mentre in alto brilla una stella cometa, e in basso è raffigurato un cane. E’ possibile che le aggiunte abbiano a che fare con l’araldica del committente, e che il soggetto, se è da identificarsi con i Gemelli zodiacali, alluda al suo segno natale.

 

Dopo Francesco, è suo figlio Carlo Antonio che porta l’Istoriato alle vette più alte. Di Carlo Antonio fanno ora parte della collezione Matricardi  questi due splendidi piatti, già  più volte pubblicati  (fig. 7,7a,7c,8,8a). Sono di particolare interesse gli ornati della tesa, perché tratti da un disegno di Francesco Bedeschini  (fig.7b), che ne eseguì almeno quattro appositamente per Carlo Antonio nel 1688[10].  Questo disegno, conservato nel Victoria and Albert Museum di Londra, raffigura un tondo con due fasce concentriche di decorazioni a grottesche e, al centro, un Ratto di Europa. Dalla fascia più esterna derivano i satiri allacciati alle trabeazioni su cui siedono putti, che ornano anche le tese dei due piatti Matricardi. Curiosamente nel primo dei due piatti (fig.7) Carlo Antonio, pur avendo utilizzato l’invenzione del Bedeschini per la grottesca di contorno, non ha fatto altrettanto per la parte centrale, su cui è rappresentato proprio il mito di Europa. Gli ha preferito una stampa tratta dalle Metamorfosi di Ovidio, incisa da un anonimo nella bottega e su disegni di Hendrick Goltzius fra il 1589 e il 1590. E’ corredata dai versi di Franco Estius, che ne illustrano il significato.     

Anche il secondo piatto di Carlo Antonio (fig.8) deriva da una stampa della stessa serie (fig.8a).  Vi compare  un episodio  del mito di Callisto e Arcade [11]:  Giunone si lamenta con Oceano e Teti, supplicandoli affinché vendichino l’umiliazione da lei subita[12]. Giove ha infatti trasformato la sua amante Callisto e il figlio avuto da lei, Arcade, in due costellazioni, Orsa Maggiore e Minore, elevandoli  alla gloria del cielo. Infuriata, Giunone si rivolge a Teti, che l’ha allevata, e al suo sposo Oceano chiedendo loro di non permettere che le due nuove costellazioni si bagnino nelle sacre acque del mare. Di conseguenza  le due Orse non possono mai tramontare, ma vagano sempre visibili nel cielo.  Carlo Antonio ha illustrato i due miti con la consueta abilità, confermandosi il maggiore interprete del barocco nell’ambito della maiolica castellana.  

In questo piattello di piccole dimensioni, nemmeno 20 cm. di diametro (fig.9), Carlo Antonio dà prova delle sue capacità miniaturistiche, riuscendo a mantenere intatta la qualità della pittura anche in scala ridotta. Il piattello proviene dalla collezione Paparella Treccia, e vi è dipinto un paesaggio ispirato a una stampa dei fratelli Perelle. La scena centrale è circondata da una cornice nella quale putti alati sostengono grandi mazzi di fiori, e il tutto è illuminato da tocchi dorati. 

Ancora più piccola (circa 13,5 centimetri) è la superficie dipinta di questa coppetta dall’insolita forma biansata (fig.10,10a), proveniente anch’essa dalla collezione Paparella Treccia. Carlo Antonio ha qui riprodotto una caccia al leone da una stampa di Antonio Tempesta, e  impreziosito la scena  con vivaci riflessi dorati. Si rimane incantati dalla precisione e dal nitore con i quali il pittore definisce ogni particolare in punta di pennello, e dall’uso dell’oro non solo in funzione decorativa, ma anche per definire e dare vita alle fiamme che erompono nei pressi della caverna da cui viene stanato il leone.

Fra i grandi maestri dell’istoriato castellano un posto di primo piano spetta senza dubbio a Francesco Saverio, figlio di Giovanni Grue il giovane. E’ autore di questa ben nota zuppiera (fig.11,11a,11b), entrata anch’essa a far parte della collezione Matricardi. I manici a forma di foglia contrapposti ne dividono la superficie in due settori, illustrati con scene del mito di Teti (Teti accarezzata da un satiro, Teti e Oceano circondati da ninfe e tritoni). La monumentalità delle figure ai lati della zuppiera, il loro risalto, prive come sono di elementi decorativi di riempimento, le fanno emergere in primo piano, mettendo a nudo qualche ingenuità dell’artefice ed evidenziando un’impronta barocca affine a quella delle stampe da cui derivano. Ben diverso appare il coperchio, sul quale quattro putti alati svolazzano fra tralci di fiori su un cielo di un giallo intenso e luminoso. Qui la decorazione denota una evoluzione verso il gusto floreale e rococò secondo un percorso riscontrabile anche in altri autori coevi, fra cui Francesco Antonio e Liborio Grue.

E proprio a Liborio, figlio di Carlo Antonio Grue, appartiene la coppa biansata con coperchio (fig. 12) , su cui il pittore, con la consueta maestria, ha dipinto due scene bibliche, Adamo ed Eva al lavoro dopo la cacciata dal paradiso terrestre e l’Ebbrezza di Noè[14]. La coppa reca tracce di doratura a freddo, che in origine doveva essere diffusa su tutta la superficie. Sul coperchio sono dipinti nudi di derivazione carraccesca, per il tramite delle stampe del Cesio o di Pietro Aquila, alternati a due cartigli su cui spiccano grandi teste leonine.

Entra nella collezione Matricardi anche una caffettiera di raffinata fattura (fig.13,13a,13b), arricchita di dorature che ne illuminano i colori vivaci. Incorniciati da grandi alberi in primo piano, vi sono raffigurati bracci di mare, edifici e montagne.  Due fanciulli siedono ai lati del beccuccio, uno di essi stringe in mano una trombetta. La caffettiera è fornita di un coperchio, intatto, sul quale è dipinto un edificio. L’attribuzione corrente per questo tipo di figure e paesaggio, con edifici biancastri o azzurrati caratterizzati da file di alte e strette finestre  è a Nicola Cappelletti, fratello del più famoso Candeloro. Bisogna tuttavia ricordare che non sono ancora state ritrovate opere firmate da Nicola, e che l’attribuzione a lui  della tipologia cui appartiene la caffettiera, che comprende un foltissimo gruppo di paesaggi alberati con rovine, edifici e macchiette illuminate da un sole nascente, non è da tutti condivisa, e non ha molto a sostegno[15].  Riteniamo comunque importante l’individuazione , ancor più che di un autore, di una tipologia coerente cui fare riferimento, e la cui attribuzione al Cappelletti verrà prima o poi confermata o smentita.

A Berardino Gentili il Giovane, figlio di Carmine, va attribuita la coppetta biansata con Cristo legato, entro un tondo incorniciato di fiori e frutti [16](fig. 14). La coppetta fa parte di una serie su cui sono raffigurati santi e beati francescani[17]. La presenza di alcuni beati di culto locale  (Serafino da Ascoli e Corrado Miliani, anch’egli da Ascoli ) fanno pensare a un corredo destinato a un convento francescano di  Ascoli Piceno.

Concludiamo questa breve rassegna con una coppetta lauretana, legata cioè al culto della Santa Casa e della Madonna di Loreto[18] (fig.15)  Tutt’attorno al bordo interno corre  la scritta “LAVRETANA EX PVLVERE PARIETVM ICONIS ET CAPPELLAE SANCTAE MARIAE …” La scodella  incorpora dunque un po’ di polvere ricavata dai muri della Santa Casa. Al centro è raffigurata però una Vergine addolorata, con un pugnale conficcato nel petto. E’ straordinaria la raffinatezza con cui è eseguita, che richiama la qualità e i modi di un ben noto maiolicaro della fine del ‘700, Gesualdo Fuina. 

Con queste ultime acquisizioni, tutte di altissimo livello, la collezione Matricardi si conferma fra le prime dedicate alla maiolica abruzzese. Ci sembra un magnifico esempio di come il collezionismo privato possa contribuire in maniera sostanziale alla cultura e a una più approfondita  conoscenza della storia dell’arte ceramica. 



[1] La collezione Matricardi è stata parzialmente presentata in mostra a Teramo nel 2012 e a Ostuni nel 2015 (Carola Fiocco-Gabriella Gherardi-Giuseppe Matricardi, Capolavori della maiolica castellana dal Cinquecento al terzo fuoco, catalogo della mostra, Torino 2012;  Donato Coppola- Antonio dell’Aquila- Carlo dell’Aquila-Carola Fiocco-Gabriella Gherardi- Giuseppe Matricardi, Tre secoli di maiolica di Castelli 1500-1700, Ostuni, Museo di Civiltà preclassiche della Murgia meridionale, 2015)

[2] Carola Fiocco-Gabriella Gherardi, Una ‘Bella’ nella Collezione Matricardi, in Castelli, Quaderno del Museo delle Ceramiche, n.9, ottobre 2014,   p.63

[3] Tjark Hausmann, Fioritura, Berlino 2002 nn.48 e 49

[4] Al di fuori della maiolica castellana, nell’ambito del Compendiario vi sono altri esempi più o meno contemporanei di questa forma: nel Museo internazionale delle ceramiche di Faenza vi è un bacile a conchiglia nella collezione Cora (diametro massimo cm. 41), e un altro è nella sezione del Compendiario faentino, con l’immagine di Sant’Antonio (inv. 1081).

[5] La conchiglia non è però  menzionata nell’inventario delle suppellettili che il cardinale conservava nel suo palazzo romano poiché, viste le dimensioni e il peso, è difficile identificarla con la“tazza da bevere fatta a conchiglia” compresa nell’elenco  (Carmen Ravanelli Guidotti, La produzione turchina:  la nascita e l’affermarsi del nuovo gusto tra manierismo e barocco, in Le maioliche cinquecentesche di Castelli, Pescara 1989,  pp.130-131)

[6] Le dimensioni sono cm. 22,5 x 21,5

[7] Le dimensioni sono:  diametro cm. 28,7, altezza cm. 8,6

[8] Castello Sforzesco, Museo di Arti Applicate, inv. 526 (Luciana Arbace, scheda n. 462 p. 396, in Museo d’Arti Applicate, Le ceramiche, tomo primo, Milano, Electa, 2000)

 

[9] Questo avviene anche nel’esemplare di Milano

[10] Howard Coutts, Francesco Bedeschini, disegnatore di maiolica, in Centro studi per la storia della ceramica meridionale, Napoli, Quaderno 1985-1986, p.7 e fig.1.  Francesco Bedeschini fu pittore e incisore attivo all’Aquila nel XVII secolo.

[11] Lo stesso mito è raffigurato parzialmente su un piatto nelle collezioni di Burghley House, Inghilterra, inv. CER 0713

[12] Metamorfosi, II, 508-520.

[13] Secondo il Battistella, lo stile appare meno sicuro che altrove, favorendo l’ipotesi che si tratti di un lavoro giovanile  ( Franco G. Maria Battistella – Vincenzo de Pompeis, Le maioliche di Castelli dal Rinascimento al Neoclassicismo, Pescara, CARSA, 2005 p.228 n.365)

[14] Le scene vengono da un Antico Testamento di Gerard de Lairesse, stampato a Parigi da Jean Mariette.  Il coperchio originale, già in possesso del collezionista, è stato sostituito a quello che si trovava sul vaso al momento dell’acquisto, troppo grande, completandolo così in modo adeguato.   

[15]  Vi sono alcune attribuzioni storiche risalenti ai Rosa e al Polidori (la prima  nella Mostra d’arte antica abruzzese di Chieti del 1905).  Inoltre alcune maioliche attribuite a Candeloro recano nello sfondo edifici nello stile del gruppo attribuito a Nicola, suggerendo che i due fratelli lavorassero insieme. Si tratta però  di semplici attribuzioni a Candeloro, la cui unica opera pittorica firmata non reca alcun paesaggio sullo sfondo.

[16] Il diametro è cm.12, l’altezza cm.5

[17] Coppola et alii 2015, op.cit, n. 132

[18] Il diametro è cm. 15,6, l’altezza cm. 5,5

 


Cerca nel sito

Loading
Per essere aggiornato sulle novità, leggi le NEWS