Mastro Giorgio da Gubbio: una carriera sfolgorante.

Carola Fiocco - Gherardi Gabriella. Catalogo della mostra Gubbio 1998, Firenze 1998

 

 

La tecnica del lustro fu introdotta nel bacino del Mediterraneo dai ceramisti islarnici, che aggiravano così in un certo senso il divieto religioso di usare vasellame d'oro o d'argento sulla tavola. Rivestendo infatti la ceramica di una patina dorata o rarnata, le conferivano aspetto di metallo prezioso.
Q
uasi per una trasmutazione alchernica, la terra veniva così nobilitata e resa degna delle mense più nobili. L'effetto si otteneva con un impasto di sali di argento e di rame mescolati a terra d'ocra e diluiti in aceto, che veniva poi applicato sullo smalto g cotto. Seguiva un'ulteriore cottura, in riduzione e a temperatura piuttosto bassa (circa 600 gradi), che ammorbidiva senza fonderlo lo smalto sottostante, consentendo al lustro di fissarsi. La presenza di fumo restituiva allo stato metallico gli ossidi coloranti e, all'uscita dal forno, dopo una energica pulitura, gli oggetti brillavano come fossero d'oro (1). 

La tecnica, tutt'altro che facile, pare sia comparsa per la prima volta in Mesopotamia nel IX-X secolo. Si diffuse quindi in Egitto, in Iran e in gran parte dell'area islamica, compresa la Spagna. Qui, anche dopo la riconquista, le officine di Valenza e Manises, subentrate per importanza alla p famosa Malaga, continuarono una produzione che, nella sua preferenza per gli ornati geometrici e vegetali, proseguiva l'avversione islamica per la raffigurazione umana e animale, pur acquisendo elementi araldici o emblemi cristiani. I grandi piatti ornati a foglie d'edera, a prezzemolo e brionia, a note di musica erano importati e molto apprezzati in Italia, dove i ceramisti cercarono di imitarli fin dagli inizi del secolo XV. Dovevano limitarsi, però, a riprenderne forme e motivi decorativi, tracciandoli col blu e col giallo, poiché in un primo tempo erano incapaci di ottenere il lustro. Un bel vaso toscano con lo stemma di Lorenzo de' Medici e di sua moglie Clarice Orsini, attualmente a Detroit (2), esemplifica al meglio questo tentativo, imitando le ceramiche spagnole (si veda in particolare il vaso mediceo valenzano del British Museum di Londra (3) sia nella forma, dai caratteristici manici a cresta traforati, sia nel motivo a fiordaliso. Tuttavia al lustro dei modelli origi-
nali si allude solo con un pallido giallo, benché il vaso appartenga già alla seconda metà del secolo, essendo il matrimonio fra Lorenzo e e Clarice avvenuto nel 1469. 

Come fatto tecnico, il lustro non è documentato da noi prima degli ultmi decenni del Ouattrocento (4). Allora venne sperimentato presso alcuni centri dell'Italia centro-settentrionale, precisamente quelli che ospitavano le principali botteghe e vantavano la p alta produzione in campo ceramicoFaenza, Pesaro, Deruta. Curiosamente sembra rimanerne esclusa la Toscana, dove pur affluivano in maggior quantità i manufatti spagnoli. La produzione a lustro di Cafaggiolo è infatti pienamente cinquecentesca, e forse dipende in qualche modo da quella derutese (5). La spiegazione può trovarsi da un Iato nella non eccelsa qualità che caratterizzava le maioliche di Montelupo, dove si concentrava all'epoca la maggior parte del prodotto toscano, dall'altro proprio nella facilità con cui le nobili famiglie potevano procurarsi il

prodotto originale, commissionando oggetti con il proprio stemma direttamente a Valenza. Di conseguenza i ceramisti toscani non partecipano a questo primo momento di sperimentazione sul lustro, e non sono poi in grado di applicarlo nemmeno per commissioni importanti, come il vaso di Detroit.

Come era prevedibile, i primi esemplari a lustro italiani risentono da vicino dei modelli ispano moreschi: il tono del lustro è ramato, gli ornati richiamano quelli valenzani. Non vi fu tuttavia alcun seguito significativo se non in Umbria, unico luogo dove la tecnica allignò. Faenza non sembra essere andata oltre una fase sperimentale (6), mentre a Pesaro sono state ritrovate ciotole a lustro di produzione senz'altro locale perfettamente cotte e decorate (7), ma in numero talmente limitato da far pensare a una singola bottega assai poco prolifica, o a uno scarso riscontro di mercato.

Diverso è il caso di Deruta, dove la grande famiglia dei Masci, discendenti di Mascio di Vannuccio, sembra essersi arricchita proprio grazie al lustro.
Nel 1496
sono menzionati nei documenti pagamenti per vasellame a lustro, e l'eccezionale prosperità della famiglia, divisa in tre rami, in possesso di tre laboratori e una fornace, di una rivendita nella piazza principale, di terreni e beni immobili, si giustifica proprio con la capacità di applicare una tecnica nuova e non alla portata di tutti (8).

Anche qui l'inizio sembra essere stato di tipo moresco, come indica la
deco
razione di uno dei primi esemplari, un albarello biansato con le armi dei Baglioni la cui tipologia è ancora decisamente tardo-gotica (9), Subito dopo, verso la fine del secolo XV, subentrano i caratteristici ornati del Rinascimento derutese (denti di lupo inframmezzati da infiorescenze, foglie frastagliate, ghirlande, embricazioni sovrapposte), spesso distribuiti entro scomparti (10). Pur affiancandosi a una produzione policroma di livello altrettanto alto, il lustro rimane per Deruta un tratto distintivo, e continua ad essere prodotto fino alla fine del Seicento (11), pur avendo nella prima metà del secolo precedente il suo momento di maggior fulgore. Sarebbe interessante
approfondire i motivi per cui, mentre altrove non vi fu un seguito, qui la tecnica si affermò con tanto successo e durata da costituire quasi un monopolio. Lo stile entrò in simbiosi col lustro, adattandovi la propria evoluzione e sviluppandosi in maniera decorativa e arcaizzante. Inoltre il prodotto derutese incont il favore del mercato e lo condizionò, diventando un punto di riferimento obbligato per chiunque volesse maioliche a lustro e fosse in grado di pagarle.

A Gubbio la situazione iniziale non deve essere stata diversa, anche se in dimensione minore. Dai documenti di scavo e di archivio si ricava che, a partire dagli ultimi anni del 1400, alcuni ceramisti eugubini padroneggiavano la tecnica, avendo la probabilmente acquisita dai derutesi (12), A questa ultima conclusione ci porta l'uso iniziale di forme e motivi simili a quelli in uso a Deruta, testimoniato dalla quantità veramente cospicua di frammenti che continua ad emergere dal sotto suolo eugubino. In parte di essi le decorazioni sono soltanto profilate in blu, pronte ci per l'applicazione del lustro mai avvenuta, ed equivalgono insomma a scarti di fornace, non avendo subto l'ultima cottura. Talvolta invece su quegli stessi motivi troviamo anche il lustro, dorato o di uno smagliante rosso rubino, che si distingue per intensità da quello derutese, il cui tono è più ramato.

Dunque all'inizio la produzione a lustro di Gubbio non doveva disco-
starsi molto da quella derutese, a parte forse il tono più vivo del rosso. Perquesto, a nostro avviso, ha ottime probabilità di essere eugubino il grande piatto da pompa con Sant'Ubaldo della collezione Fanfani del Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza, generalmente attribuito a Deruta (scheda n. 1), su cui non ci risulta siano mai stati avanzati dubbi del genere, poiché appartiene a una tipologia la cui collocazione non viene generalmente messa in discussione. Il motivo non è ovviamente legato all'iconografia (Ubaldo è il patrono di Gubbio), che poteva benissimo essere stata

fig.1
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fig.2
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fig.3
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fig.4, 5
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fig.6
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fig.8
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commissionata anche fuori della città, ma a quella particolare brillantezza del rosso e del verde, e alla stilizzazione delle punte o "denti di lupo" che circondano la tesa. Il piatto con Sant'Ubaldo può essere accostato, per questi motivi, ad altri esemplari che ne condividono le caratteristiche, ad esempio quelli con le favole esopiche tratte dall'edizione napoletana del Tuppo (13), la cui esecuzione eugubina è stata invece più volte ipotizzata. È dunque meglio tenere distinta la produzione derutese dalla tipologia derutese, che riguarda anche altri centri. Gli artefici si spostavano continuamente per lavoro, si trasferivano altrove, mettevano su bottega e producevano oggetti simili a quelli di prima. Così anche ad Orvieto è stato eseguito vasellame a lustro di tipologia derutese, da ceramisti che vi si erano trasferiti (14).

Il ritrovamento a Gubbio di una grande quantità di frammenti a lustro di tipologia derutese toglie, a nostro avviso, significato all'annosa polemica se il lustro sia per Gubbio un prodotto autoctono o sia stato portato da Pavia da Mastro Giorgio. Sono noti i dati della questione. Nativo di Intra, Giorgio era stato probabilmente per un certo periodo residente a Pavia (15), prima di trasferirsi definitivamente a Gubbio, e i vasai di Pavia, secondo Cesare
Cesariano, sapevano porre sui vasi rivestimenti preziosi dorati e argentati ottenuti a fumaggio (16). Inoltre, sia nel Breve con cui Leone X rinnova l'esenzione ventennale dalle tasse avuta da Giorgio all'atto della cittadinanza (17), sia nella supplica che questi, ormai vecchio, rivolse nel 1552 a Guidubaldo II per rinnovare il privilegio (18) si accenna a insistenti inviti da parte delle autorità affinché un tale artefice, esperto nell'arte dei lustri, si trasferisse a Gubbio.

È possibile, visto il tipo di documento, che l'importanza iniziale di Giorgio vi sia stata un po' esagerata, tanto più che è di recente emerso il nome di un maestro vasaio di Gubbio, Giacomo di Paoluccio (19), con cui Salimbene e Giorgio si associano fin dagli anni ottanta, e che appare coinvolto nella produzione di lustri. Nel 1489 Salimbene si impegna a rispettare con lui patti precedentemente stipulati, mentre nel 1495 e nel 1501 i due fratelli sottoscrivono contratti volti alla produzione di maioliche lustrate.
Ini
zialmente la produzione avviene presso Giacomo, anche perché Giorgio non disponeva ancora né della cittadinanza, che ottiene nel 1498, né di una propria bottega. Solo col contratto del 1501 appare chiaro che ormai Giorgio si è installato per conto proprio. Ha aggiunto al proprio nome la qualifica di Maestro, e fornisce alla pari con Giacomo la sua parte di vasellame bianco e azzurro, allo stadio cioè della seconda cottura. Illustro verrà poi applicato a spese comuni, sottolineando con ciò la particolare difficoltà e i rischi dell'operazione. I dati a nostra disposizione raccontano dunque non la storia di un maestro famoso che si trasferisce a Gubbio dietro promesse e lusinghe, ma quella di un artefice senz'altro dotato e intraprendente, forse con precedenti esperienze lombarde di applicazione del lustro, che ha comunque trovato tale tecnica già in uso sul posto e che la perfeziona, elaborando modelli decorativi adeguati. In seguito, la sua carriera è davvero folgorante. Dopo aver ottenuto la cittadinanza, nel 1499 acquista casa e bottega nel quartiere di Sant'Andrea e appare sempre più immerso nel lavoro. Subentra gradualmente a Giacomo nelle commissioni per il convento di San Pietro e dopo la morte di questi, avvenuta attorno al 1518, diventa senz'altro il maiolicaro più importante di Gubbio, e l'unico la cui fama travalicava i confini della città. I fratelli lavorano presso di lui, Salimbene fino alla morte, avvenuta forse nel 1523, Giovanni fino al'21, anno in cui si divide economicamente dai fratelli e si fa liquidare la sua parte. Un documento del 1517 attesta comunque che Giorgio usava esclusivamente il proprio

 

nome anche quando agiva per conto dei fratelli, col loro beneplacito.
Qu
esto spiega perché, anche dietro le maioliche datate dal 1518 al 1522, periodo in cui essi lavoravano insieme, troviamo soltanto la sua firma, o per esteso o sotto forma di sigla (20). 

A partire dal 1523 compare il cognome Andreoli, che non trova ancora una spiegazione soddisfacente, a meno che, come ipotizzava il Mazzatinti, non si trattasse di una denominazione tratta dal quartiere nel quale i fratelli risiedevano (21). Da quell'anno in poi esso viene usato con una certa frequenza nei documenti d'archivio, i quali ci consentono di seguire passo passo la carriera di Giorgio (22), il suo progressivo arricchirsi, gli affari cui regolarmente si dedicava: ai pagamenti effettuati dagli acquirenti, in particolare da parte del convento di San Pietro, il cui archivio ci è pervenuto, si affianca la menzione dei prestiti fatti, dei poderi da lui dati in affitto, delle
terre acquistate. Nel 1525 diviene anche consigliere comunale per il quartiere di Sant'Andrea, dimostrando così di essere ormai un cittadino eminente. Misteriosa rimane invece la personalità di Giacomo, che pure dovette essere preminente, e la sua produzione quasi totalmente non identificata. Non è possibile risalire ai piattelli e tazze "de mayolicha", ovvero a lustro, da lui forniti nel 1498 per la foresteria del monastero olivetano di San Benedetto, né ad alcun esemplare della produzione comune eseguita con Giorgio e i suoi fratelli a seguito dei contratti del 1495 e 1501. Ci sembra pero di poter leggere la sua firma sul retro di un piatto del Louvre con
un
a scena di caccia desunta da un'incisione con il ratto di Ganimede del Maestro IB dall'Uccello (scheda n. 3). Al centro del piatto sono raffigurati, su sfondo di paesaggio, due cacciatori nudi di cui uno tiene un cane al guinzaglio e l'altro, visto di schiena, porta una lepre sulla spalla. Tutt'attorno alla tesa corre un giro di trofei d'arme. Il disegno è delineato in blu, e i colori sono rialzati da lustro dorato e rossastro. La firma non è del tutto chiara, ma è nel complesso leggibile, e lo stile del piatto, con la sua commistione di elementi umbri e marchigiani, perfettamente compatibile con quella che
doveva essere la produzione eugubina nel secondo decennio del secolo. Pur avendo presumibilmente attinto illustro da Deruta, infatti, l'appartenenza di Gubbio al ducato di Urbino fa sì che si manifesti assai presto un legame stilistico con la maiolica di Casteldurante e, in un secondo tempo, con quella di Urbino. 

Già agli inizi del Cinquecento i vasai di Casteldurante, l'attuale Urbania, utilizzavano con maestria i trofei d'arme cari al Rinascimento e le grottesche, entro le quali si avvolgevano putti, animali, satiri ed altre mostruosità (23). La preminenza culturale della vicina corte di Urbino, gli artisti e gli artigiani chiamati a decorare i palazzi e le chiese contribuivano senz'altro a estendere alle arti applicate quel repertorio figurativo ispirato all'antico che,
pian piano, andava sostituendo quello gotico ed entrava nell'uso comune. È famoso il vasaio durantino Zoan Maria, che firma nel 1508 una coppa con gli emblemi di Giulio II circondati da una grottesca particolarmente elaborata, che comprende putti, satiri, uccelli, collane, trofei e racemi decorati (24). Questa coppa rappresenta il culmine di una serie numerosissima di oggetti con decorazioni analoghe, eseguiti da altri artefici ma di tipologia affine, che  mostrano una straordinaria disinvoltura nel trattare i temi rinascimentali (25). Lo stesso genere costituisce anche la maggior parte della produzione di Giorgio fin verso gli anni venti: vi appartengono il piattello datato 1515 del Victoria and Albert Museum di Londra (26), che è la prima opera attribuibile con sicurezza alla sua bottega, e il piattello qui esposto datato 1519, con iscrizione, grottesca e testina angelica (scheda n. 4). Vi appartengono 

 

anche, più elaborati, il piatto con lo stemma Aldobrandini del Museo Civico Medievale di Arezzo (1518; vedi fig.1) e quello anch'esso stemmato dell'Hermitage di San Pietroburgo (27), la cui grottesca, dominata dalle grandi figure di putti, richiama nel suo schema quella di Zoan Maria.
Vi è dunque in questo periodo un legame stretto con Casteldurante, al punto da ripeterne a lustro le tipologie.

La stessa cosa avviene per l'istoriato (28), termine che indica l'esecuzione, sulla superficie maiolicata, di vere e proprie storie, desunte da disegni o da stampe, tramite l'uso di spolveri. Sul retro talvolta viene scritto l'argomento, il significato cioè della scena, .che altrimenti potrebbe riuscire ostica, e più raramente la fonte da cui è tratta. L'argomento è generalmente scritto dallo stesso che ha dipinto la scena, o da qualcuno all'interno della bottega rinomato per la sua scrittura. Capita infatti che opere eseguite da mani diverse rechino poi sul retro la stessa calligrafia. Il pigmento usato è quasi
sempre il blu, che dà la massima garanzia di leggibilità, più raramente il giallo, se la scritta è breve e si limita alla data e alla enunciazione del luogo (29).
Qualora l
'oggetto venga sottoposto alla terza cottura e all'applicazione del lustro, è frequente l'aggiunta della data e della sigla di bottega in oro o rosso, o magari in entrambe le tonalità. La sigla è costituita dal nome di Giorgio, o sotto forma di iniziale o per esteso, preceduto dalla qualifica di maestro, talvolta seguito dalla precisazione "in ugubio". L'abitudine di contrassegnare i propri pezzi e, spesso, di datarli è comunissima presso gli Andreoli soltanto dopo il 1515. Non è raro che la data a lustro sia posteriore alla data in blu inserita nella decorazione principale, e questo indica che il pezzo è rimasto per qualche tempo a giacere nella bottega, prima della
terza cottura (30),

L'istoriato è documentato a Casteldurante e a Gubbio in date precoci, quando ancora la maiolica urbinate quasi non compare se non per una produzione poco importante e non figurativa, come indicano i dati di scavo (31).
A Urbino l'istoriato si afferma soltanto dopo il 1520, in coincidenza forse con il definitivo insediamento della corte roveresca nella capitale del ducato. A Casteldurante e a Gubbio, al contrario, esso è già presente nel corso del secondo decennio. Al di là di un repertorio molto spesso opinabile che gli viene tradizionalmente attribuito, Zoan Maria di Casteldurante è sicuramente l'autore di una coppa in collezione privata con la scena fantastica di un tritone che reca sul dorso un fanciullo (32), stilisticamente così vicina a quella g citata del 1508 da non potersene discostare neppure come data, e che
r
appresenta uno splendido e precoce esempio di istoriato durantino.
Qual
che tempo dopo abbiamo notizia di un istoriato a lustro datato 1515, menzionato nell'elenco di opere di Giorgio redatto dall'abate Carli. Si tratta di un piattello con tesa a grottesche recante nel cavo la storia di Abramo e Isacco, fra i cui colori risultano anche il rosso e il giallo "a oro"(33). Il piattello, la cui collocazione attuale non ci è nota, si trovava un tempo in casa Piccini a Gubbio, compare in tutti gli elenchi più antichi di opere di Giorgio, ed è possibile seguirne le tracce fino alla collezione Bernal, dispersa nel 1855. Se ad esso aggiungiamo il piatto con la scena di caccia attribuibile a Maestro Giacomo di cui sopra, bisogna concludere che la grande stagione
cinquecentesca dell'istoriato marchigiano ha i suoi inizi a Casteldurante e a Gubbio. In più, Gubbio aggiunge il lustro che richiede, come abbiamo visto, una terza cottura a fuoco più basso, e aumenta il rischio per l'integrità del pezzo, anche se il risultato è più ricco e appariscente.

Poiché illustro si applica sulla maiolica già decorata e cotta (i "lavori forniti" del Piccolpasso (34), e ne costituisce il tocco finale, è tecnicamente possibil 

 

che la bottega di Maestro Giorgio operasse su maioliche decorate altrove, e a lui fatte pervenire per quest'ultima aggiunta. Così si è sempre creduto che vi sia stato uno scambio di oggetti, oltre che di artefici, fra Gubbio e gli altri centri del ducato, e che accanto alla produzione propria Giorgio svolgesse una attività collaterale volta all'esclusiva applicazione del lustro.

In passato, vi fu in proposito una querelle che movimen notevolmente la storia della ceramica nella prima metà del nostro secolo (35), e portò molti a concludere, con il Ballardini, che quella di Gubbio era una bottega "accessoria", che si dedicava principalmente ad applicare il lustro sulle maioliche altrui. Queste, una volta decorate e cotte, e con le zone destinate al lustro lasciate prive di colore o campite col giallo, sarebbero poi state mandate a Gubbio e sottoposte all'ultima cottura. Non era forse scritto, dietro un piatto del 1532 nel Museo Medievale di Bologna attribuito a Nicola da Urbino (fig. 11 ), che Maestro Giorgio lo aveva "finito" con il lustro, significando che il suo intervento si era limitato all'ultima fase ? (36) E illustro di Gubbio non figurava forse su piatti posteriori al '30 firmati dall'Avelli "in Urbino"? Come spesso avviene fra gli studiosi, la polemica assunse toni feroci, mentre ognuno tendeva a radicalizzare la propria opinione (37). Eppure era stato pubblicato già dal Mazzatinti il contratto di Giorgio con Giovanni Luca da Casteldurante, che nel 1525 vincolava quest'ultimo a dipingere vasi nella sua bottega e a risiedere a Gubbio per almeno un anno, e dove veniva specificamente menzionata la decorazione istoriata (38).

In realtà, per tutto il terzo decennio del secolo non vi è motivo di supporre trasferimenti di maioliche a Gubbio per esservi lustrate, né che le maioliche a lustro eseguite in quel periodo provengano, per la loro prima fase, da altre botteghe e non da quella di Giorgio. Anzi, vi sono precise indicazioni del contrario. Per i cinque anni successivi al piatto con Abramo e Isacco non ci sono noti altri esempi di istoriati eugubini ma, a partire dal 1520, inizia una sequenza ininterrotta che, essendo quasi sempre datata, è possibile seguire attraverso le illustrazioni nel Corpus del Ballardini, dove spicca per continuità e coerenza. Essa viene aperta da un'opera emblematica, il piatto del Petit Palais di Parigi con il Giudizio di Paride, proveniente dalla collezione dei fratelli Dutuit (scheda n. 5). L'eccezionali di quest'opera non deriva tanto dalla quali molto alta della raffigurazione, con le sue grandi figure immote e finemente chiaroscurate e lo splendore del lustro, quanto dal fatto che, sul retro, la firma di Maestro Giorgio non è eseguita col lustro, come di solito avviene, bensì col blu di cobalto. Il piatto è dunque la dimostrazione di quanto emerge con evidenza dalla documentaziond'archivio, e cioè che nella bottega di Giorgio venivano eseguiti per intero istoriati di alto livello, e non solo lustrati. La firma è stata infatti tracciata non a terzo fuoco, ma contestualmente alle figure, e cotta in seconda cottura. Non si capirebbe l'importanza di questa constatazione senza vederla alla luce della querelle di cui sopra. Così il piatto Dutuit venne guardato con sospetto, e Ioseph Chompret, nel suo Répertoire, pur di non ammettere l'esecuzione eugubina di un istoriato così raffinato volle vedervi addirittura la firma - ricordo che Giorgio avrebbe apposto per caso su un piatto in lavorazione mentre visitava una bottega di Urbino (39).

Ma questi sono atteggiamenti del passato, e viene ormai generalmente accettato che il Giudizio di Paride Dutuit sia stato interamente eseguito nella bottega degli Andreoli e, come lui, le opere attribuibili allo stesso pittore, la cui identità anagrafica non è possibile determinare, visto che la firma di Giorgio aveva valore di sigla di bottega, mentre quella stilistica è nel complesso riconoscibile. Il suo possibile repertorio non va oltre il 1528, e 

 

questo sembrerebbe escludere che si tratti del maestro in persona, e indicare piuttosto una collaborazione esterna limitata nel tempo (40).

Particolarmente vicini al piatto Dutuit sono l'Ercole che strozza Anteo della National Gallery of Art di Washington (41) e i due piattelli ormai perduti un tempo nello Schlossmuseum di Berlino con le Storie di Mitra e di Peleo e Teti, datati anch'essi 1520 (42). Vi sono poi un servizio con uno stemma troncato che reca un porcospino in capo (Martini Ricci di Siena?) (43), e un altro contrassegnato da uno stemma ugualmente di incerta identificazione entro cui spiccano una stella e un crescente (fig.2)(44) entrambi datati 1522.
L'esemplare più tardo ci sembra essere il piatto del Museo di Torgiano con Satira e Bacca fanciullo, datato 1528 (fig.3). Notevolmente affine è anche il cosiddetto Pittore del sepolcro di Sant'Ubaldo, così chiamato da una serie di piatti con questa raffigurazione (45), forse autore del piatto con San Girolamo del Museo Civico Medievale di Pesaro (scheda n. 6). Il Rackham   includeva nell'elenco un gruppo di opere datate 1525, facenti capo al famoso tondo con le Tre Grazie del Victoria and Albert Museum (fig.4), fra cui l'Allegoria dell'invidia dello stesso museo, il Bagno delle ninfe della Wallace Collection (fig.5). Aggiungeva poi il piatto Pringsheim con Ercole e Nesso, e quello del British Museum con un Dio fluviale, datato 1524 (46). L'attribuzione di quest'ultimo gruppo è attualmente meno condivisa, e il Wilson riscontra maggiori affinità con lo stile del Monogrammista FR, con ogni probabilità l'Avelli nella sua prima fase (47). Il fatto però che esso derivi direttamente da stampe evolute come quelle del Raimondi o del Robetta potrebbe avere influenzato notevolmente l'esecuzione, rendendola meno riconoscibile.

Il Pittore del Giudizio di Paride è di buon livello, sensibile ai colori e ai trapassi chiaroscurali, con un gusto quasi monumentale per le figure, che campeggiano sullo sfondo di un paesaggio delicatamente lumeggiato. Il lustro non si sovrappone alla pittura, ma occupa larghe zone lasciate libere appositamente, con effetti preziosi. È evidente che chi ha dipinto la scena l'ha destinata fin dall'inizio a questo arricchimento, che ne fa parte integrale, e questo sembra indicare uno stretto contatto col lustratore, e depone a favore di un'unica bottega. È possibile dare un nome all'artefice? Giovanni
Luca da Casteldurante è, come abbiamo visto, documentato nella bottega di Giorgio soltanto nel 1525. È dunque immediato il collegamento con le opere datate allo stesso anno, cioè con il gruppo legato alle Tre Grazie. Se, come credeva il Rackham, dobbiamo considerare queste ultime della stessa mano del piatto Dutuit, nulla ci vieta di supporre una precedente collaborazione il cui contratto non ci è pervenuto. Se invece manteniamo separati i due gruppi, si può pensare a Paolo da Urbino, pittore in rapporto con Giorgio fin dal 1508 (48). Ma vi saranno stati altri di cui non ci sono pervenute notizie, e in mancanza di firme o riferimenti precisi è meglio non pronunciarsi.

Accanto agli istoriati, i trofei e le grottesche, utilizzati separatamente o in combinazione, dominano la produzione fin verso il 1524-'25. A trofei è decorato, ad esempio, un servizio famoso datato 1524 e '25 recante sul retro un segno di proprietà entro cui è tracciata la lettera S. Ne fanno parte anche piatti istoriati, fra cui quello con cavaliere del British Museum di Londra (scheda n. 8). Successivamente la presenza di questi due tipici ornati si attenua, per riprendere vigore nei primi anni trenta, su una serie di piatti con al centro busti maschili o femminili di raffinata fattura spesso accompagnati dal cartiglio col nome (v. scheda n. 25). A partire dal 1525 è invece particolarmente in auge un motivo a palmette classiche, che si ritrova

 

anch'esso in servizi importanti, come il Saracinelli di Orvieto (fig. 6) e il Vitelli - Della Staffa di Città di Castello (1527; fig. 7). Oltre all'araldica, al centro degli innumerevoli piatti e piattelli vengono spesso effigiati putti in vari atteggiamenti: mentre giocano a palla, tirano d'arco, cavalcano bastoncini di legno o mimano, bendati e legati, il neoplatonico Anteros sconfitto da Eros. È possibile che fossero la tori di significati simbolici e alchemici (ludus puerorum], oltre a costituire un ornato piacevole e vario.

Per gli istoriati continua, anche dopo il 1530, la collaborazione con maestri di Urbino. Dal 1531 al 1536 circa è presente a Gubbio Francesco Urbini che, come indica il nome, veniva dalla capitale del ducator La sua formazione traspare dallo stile, piuttosto vicino a quello di Francesco Xanto Avelli, con cui ha in comune le fonti grafiche, ricorrendo egli alle stesse stampe e addirittura alle medesime figure. Dall' Avelli deriva anche l'abitudine di mettere l'argomento, ci la spiegazione, e la data dietro i piatti istoriati. Di questo maestro, che pare abbia operato anche come decoratore di coppe a rilievo, ha parlato esaurientemente il Mallet in un suo saggio del 1979 (49), e ne ha tentato un repertorio. Le opere assimila bili alla sua maniera datate fra il 1531 e il 1536 sono tutte, tranne una, completate dal lustro e presumibilmente eseguite a Gubbio (50). Per almeno due di esse la cosa è certa, avendo egli scritto in blu, dopo l'argomento, il nome della città. Si tratta del piatto del Boymans-van Beuningen di Rotterdam con la Nascita di Esculapio, datato 1534 (fig. 8), e di quello della Galleria Doria Pamphili di Roma, qui esposto (scheda n. 18), col Ratto di Europa, dello stesso anno.
P
er essi vale quanto detto a proposito del piatto Dutuit, e cioè che la scritta in blu è la dimostrazione dell'esecuzione interamente eugubina della decorazione. Anche il piatto con Enea alle foci del Tevere, datato 1533 (scheda n. 17) è tipico della maniera di Francesco, non particolarmente raffinata ma efficace, con le figurette rigide dai profili alla greca e dai ciuffi di capelli spinti in avanti. Nel 1537 troviamo Francesco a Deruta, dove continua la sua attività e firma un famoso piatto nel Victoria and Albert di Londra, stranamente non lustrato, con Storie di Apollo (51) aprendo forse la strada a un grande maestro derutese di istoriati, Giacomo Mancini detto il Frate.

Se è certo il soggiorno di Francesco Urbini a Gubbio, sono però ancora irrisolte le relazioni di Giorgio con altri ben più famosi maestri urbinati, alcuni dei quali sottopongono al lustro le loro opere. Nel terzo decennio del secolo la capitale del ducato, Urbino, diventa un centro di primaria importanza per l'istoriato. Le sue botteghe producevano ogni tipo di maioliche, comprese quelle di uso comune con decorazioni di scarso pregio o addirittura non decorate (52). Tuttavia è l'istoriato la specialità del luogo, e qui risiedono i pittori più famosi e abili nel dipingere scene complesse su piatti, vasibottiglie. Dopo la morte di Leone X (1521) Francesco Maria della Rovere aveva recuperato quasi tutto il suo territorio, e da Adriano VI aveva ottenuto, due anni dopo, l'investitura del ducato. Urbino divenne così sede della corte, e questo probabilmente favorì una produzione d'élite qual'era quella istoriata. Alcuni maestri venivano da Casteldurante, poichè Urbino costituiva ormai un polo d'attrazione e il luogo ideale per intrecciare relazioni e ottenere committenze importanti. È questo il caso del più importante padrone di bottega dell'epoca, Guido di Nico Schippe detto Durantino dalla città di origine della sua famiglia (53). La sua lunghissima carriera (muore dopo il 1576) si svolge tutta a Urbino, benchè mantenga a lungo l'appellativo di origine. Solo a partire dal 1553 assume infatti il cognome Fontana, che trasmette ai figli. Si hanno sue notizie nei documenti fino dal 1519, data in cui egli si lega con solenne promessa di matrimonio a Giovanna di Bernardino

 

Vici, e già allora è definito "habitatorem Urbini". Dal 1527 viene chiamato maestro, termine che forse indica la gestione di una bottega propria, e nel '28 il grande Nicola di Gabriele dipinge presso di lui il piatto col Martirio di Santa Cecilia, attualmente al museo del Bargello (54) La sua produzione doveva essere cospicua già nel corso degli anni venti, tuttavia le prime opere che ci è possibile attribuire con sicurezza alla sua bottega datano al 1535.
Si tratt
a di due importanti servizi eseguiti per committenti francesi, il Connestabile Anne di Montmorency e il Cardinale Duprat (55), che attestano come la fama di Guido fosse internazionale. Anche per lui, come per Giorgio, non è possibile dire se dipingesse personalmente o meno. Può darsi che si limitasse ad assumere pittori a seconda delle necessi, e che la sua attività riguardasse la forma tura o la foggiatura, i forni e gli smalti, o la semplice gestione. Può darsi invece che fosse un valido pittore, ma senza alcun interesse a distinguere la propria opera personale da quella degli altri, purchè fosse menzionata la bottega. Come per Giorgio, così per Guido il que
sito è irresolubile, anche se non sembra di poter riconoscere, nel lungo arco di attività della sua bottega, una personalità la cui presenza appaia costante. Nel caso dei due servizi citati, si discute se siano stati dipinti dalla stessa mano o se più persone vi siano intervenute. È probabile che almeno parte delle forme aperte, stilisticamente omogenea, appartenga allo stesso pittore,
caratt
erizzato da un tratto poco incisivo, nel complesso debole ma con improvvise durezze, che ripete le sue figurette dolci, dai visi ovali e dai nasi diritti, sullo sfondo di paesaggi lacustri e montuosi o di architetture classiche dalle comici fortemente sottolineate. Questi caratteri sono diffusi in tutta la maiolica urbinate dell'epoca, ma ognuno li interpreta a suo modo.
Lo stesso Nicola di Gabriele li condivide, con ben altra forza. In questo rapporto fra una pittura debole e una più incisiva ed esperta che tuttavia utilizza gli stessi stilemi, il Rackham trovava conferma alla sua convinzione, poi rivelatasi infondata, che Nicola fosse il padre di Guid0 (56). 

Si trattava invece di un collega, con una propria bottega e una competenza pittorica quasi insuperata (57). Nicola eseguì servizi per nobili famiglie, e per la stessa marchesa Isabella Gonzaga, figlia del duca d'Este e suocera del duca di Urbino (58). Morì nel 1538, e la sua vedova affittò la bottega per tre anni a Vincenzo di Giorgio Andreoli, che in quel periodo aveva lasciato il padre e abitava a Urbino (59). Non sappiamo con certezza se Vincenzo installasse, nella bottega che fu di Nicola, il forno a muffola necessario per il lustro, ma ci sembra probabile. Con la concorrenza formidabile che avrebbe dovuto fronteggiare a Urbino nel campo della maiolica, ciò che poteva distinguerlo e arricchirlo era proprio la padronanza in una tecnica che nessun altro era in grado di applicare. Così, dopo la morte di Nicola, è forse presente in Urbino una succursale della bottega di Giorgio, che può fornire lo stesso servizio a più breve distanza. Negli anni precedenti il 1538 Vincenzo appare invece più legato alla bottega patema. Il suo nome compare in documenti eugubini (60), e ancora nel 1537 una coppa dell'Hermitage con il busto di Camilla Bella (61) (fig.9) reca sul retro la "N" (ritenuta il monogramma delle lettere "VIN") associata alle iniziali del padre, presso cui evidentemente lavorava. 

I più noti servizi di Guido, dai due francesi già menzionati a quello dedicato al vescovo Nordio non recano tracce di lustro, ma si attengono a una ricca poli cromi a basata sui toni del blu, del verde e del giallo-arancio, di eccezionale brillantezza. Vi è tuttavia un gruppo di opere databili tra il 1524 e il 1527 che sembra condividere i caratteri stilistici di questi servizi ma che è a lustro, col contrassegno delle iniziali di Giorgio. Di questo gruppo fa

parte il piatto qui esposto (scheda n.11) con le Storie di Fetonte, proprietà del Comune di Gubbio, datato 1527. Esso fu in passato attribuito a Nicola, ma poiché vi manca l'eccezionale perizia del grande artefice, malgrado alcuni manierismi comuni nel modo di tracciare le fisionomie, denota in realtà quel linguaggio più divulgativo che abbiamo visto nel pittore attivo, attorno al 1535, presso Guido. Anche gli altri oggetti del gruppo (62), fra cui
rico
rderemo per la strettissima analogia due piattelli anch'essi datati 1527 nel Royal Scottish Museum di Edimburgo (63), con scene mitologiche e identica distribuzione decorativa, sono per lo più attribuiti alla bottega di Guido, dato l'evidente legame stilistico con i due servizi francesi.

Resta da domandarsi, visti i frequenti spostamenti che caratterizzano la vita dei pittori di maioliche e la non eccessiva distanza, oltre al legame politico, che intercorreva fra i due centri, se l'intero gruppo che fa capo al piatto con Fetonte non sia stato eseguito a Gubbio da un artista di formazione urbinate, come avviene nel caso di Francesco Urbini. Questi avrebbe potuto soggiornare qualche anno presso Giorgio, quindi, prima del 1535, ricomparire in Urbino e impiegarsi presso la bottega di Guido. L'attribuzione del gruppo a quest'ultimo riflette un poco, forse, il vecchio pregiudizio che può essere riassunto nella dicitura un tempo riservata alla quasi totalità degli istoriati a lustro: "fatto in Urbino (o Casteldurante) , lustrato a Gubbio".
Esaminando l
'elenco delle opere sicure, quelle cioè che recano il nome della bottega di Guid0 (64), ci colpisce il fatto che nessuna sia a lustro. Questo naturalmente non esclude nulla, ma è comunque un dato da menzionare. Per quel che riguarda le altre opere, molto numerose, attribuite alla bottega e lustrate, il problema verte sull'attendibilità delle attribuzioni, Accettandole, accettiamo insieme l'invio a Gubbio per l'applicazione del lustro, come un tempo si riteneva, oppure la possibilità che gli Andreoli disponessero assai
presto di una ba
se a Urbino, di cui non è però rimasta traccia nella documentazione.

Il problema si presenta simile per quel che riguarda Nicola. Esiste un
reperto
rio a lui tradizionalmente attribuito, che comprende le cinque opere firmate, i servizi più famosi, e numerosi altri esemplari individuati per le analogie stilistiche. Su questi ultimi è legittimo qualche dubbio, dal momento che il repertorio non è stato ancora seriamente riesarninato, e proprio qui si annidano gli esemplari a lustro. I grandi servizi, dall'Este-Gonzaga al Calini al Valenti Gambara, si attengono infatti alla brillante policromia urbi
nate. Tro
viamo invece il lustro nella splendida coppa del Museo Civico di Pesaro con l'immagine di San Giuda Taddeo (scheda n. 9), contrassegnata però soltanto dalla sigla di Maestro Giorgio e dalla data 1525. Certo l'esecuzione è talmente raffinata da rendere plausibile l'attribuzione ma, come sempre quando si è costretti a basarsi soltanto su assonanze di stile, si può anche discuterne. Più certa appare invece l'attribuzione a Nicola di un piatto a lustro con Psiche e Cupido datato 1531 (fig. 10), un tempo nella collezione Courtauld. Oltre all'analogia stilistica molto stretta, vi appare sul
retro la belli
ssima calligrafia tipica del pittore urbinate. Vi è poi un piatto in collezione privata con l'insolito soggetto del Conte Ugolino, anch'esso datato 1531 (65) particolarmente vicino all'esemplare del Museo Civico Medievale di Bologna con la Presentazione della Vergine al tempio, datato 1532 (fig. 11 ), anch'esso tradizionalmente attribuito a Nicola. Lo stile del pittore appare ormai un po' cambiato, per un'evoluzione che lo porta ad avvicinarsi alla maniera meno raffinata dell' Avelli, col quale avrebbe collaborato nel servizio Gonzaga-Paleologo (66). Per inciso, la scritta sul retro del piatto di
Bologna, "M
oGo fini de majolica", viene da sempre utilizzata come  

 

fig.10
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fig.11
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fig.12
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fig.13
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fig.14
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fig.15
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fig.16
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dimostrazione che l'intervento di Giorgio si limitava alla finitura del lustro. Il fatto stesso che Vincenzo affittasse la bottega di Nicola potrebbe però indicare tutta una serie di relazioni intercorse prima della morte del maestro.

Se, nel caso di Nicola e Guido, i rapporti con Gubbio si prestano a una problematica ancora da approfondire, più spiccata è senz'altro la propensione al lustro di un altro grande maestro di istoriati, Francesco Xanto Avelli, e di tutto un gruppo di pittori che gravitano attorno a lui. L'Avelli è fra i più noti decoratori della maiolica italiana. Nativo di Rovigo, nel Veneto, la sua attività si svolge però nel ducato di Urbino, per una produzione che appare interamente dedicata all'istoriato. Un documento del 1530 ci rivela che il suo vero nome era Santi o Santini (67). Probabilmente egli lo rese più aulico modificandolo in Xanto e aggiungendovi Avelli quando la sua carriera cominciò a decollare sotto gli auspici del duca. Lo stesso documento lo mostra anche come libero professionista della decorazione, che passava da un datore di lavoro all'altro. È dubbio se in seguito abbia acquistato una propria bottega, poiché non la menziona mai, pur apponendo di frequente la propria firma. Inoltre, nel 1541, su un piatto illustrato con un'impresa di Carlo V specifica di averlo eseguito nella bottega di Francesco di Silvano (68). Si può quindi pensare che abbia sempre sfruttato la sua eccezionale abilità al servizio di altri. A partire dal 1530 risulta residente in Urbino, dove appare legato al duca Francesco Maria della Rovere, in onore del quale scrive anche un'opera in versi, Il Rovere Vittorioso. Le ultime notizie che si hanno di lui non oltrepassano l'anno 1542 (69), dopodichè scompare dal panorama della maiolica. Gli anni precedenti il 1530 sono stati oggetto di innumerevoli discussioni (70)", poiché Francesco non utilizza ancora, come farà in seguito, il proprio nome per esteso, condannando quindi le attribuzioni ad un margine di incertezza. C'è ormai comunque un generale consenso a considerare come opera sua gli istoriati siglati con uno svolazzo conclusivo, che somiglia alla lettera "ypsilon" o alla "phi" greca. Questo segno, che ha fruttato all'autore il soprannome di "Maestro dell'ypsilon-phi", è stato variamente interpretato, e mai in maniera convincente. Secondo il Mallet si tratterebbe di uno svolazzo qualunque, una specie di riempitivo (71), mentre per il Rasmussen si tratterebbe di una "C" paraffata, e starebbe per "etcetera (72).
Talvolta esso ricompare anche dopo il '30, accanto alla firma dell'Avelli (73), e viene quindi riconosciuto come un suo contrassegno.

Per quel che riguarda i rapporti dell' Avelli con Gubbio, essi sono indiscutibili già in questa fase precoce. Alcuni oggetti datati 1528 - il tagliere con Pico, Circe e Canente del Museo di Palazzo dei Consoli qui esposto (scheda n. 13), la coppa con Ercole e Dejanira del Museo Civico di Arezzo (fig.12), il piatto con Cupido, Leda e il cigno del Petit Palais di Parigi 74, la coppa con Ino e Atamante del Kunsthistorisches Museum di Vienna, il piatto con scene amorose della collezione Olsen di Copenaghen - recano la scritta "M" Giorgio da Ugubio", seguita dall' "Ypsilon-fi'?'. Nel 1529 la stessa scritta compare su altri istoriati dell' Avelli, fra cui la coppa del Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza con Isacco, Esau e Giacobbe (scheda n. 15), nella quale il lustro è di eccezionale splendore e occupa zone ben delimitate. Non è noto l'anno esatto in cui l'artista rodigino si stabilì a Urbino. A partire dal 1530 egli sembra risiedervi stabilmente, ma anche nel periodo immediatamente precedente doveva trovarsi nel ducato, poiché elabora una maniera pittorica e una gamma cromatica in sintonia con quelle dei pittori urbinati e durantini. Ci sembra probabile che in questa fase egli si spostasse da un centro all'altro, e che attorno al 1528-29 frequentasse la bottega di Giorgio. Il fatto che ancora nel 1530 esercitasse la professione al

 

soldo dell'uno e dell'altro, senza una propria bottega, facilita l'ipotesi di un suo soggiorno a Gubbio, come già era avvenuto per Giovanni Luca da Casteldurante. Anche in seguito Francesco è il pittore che più degli altri ricorre con continuità all'applicazione del lustro, e questo sembra indicare un'abitudine e dei rapporti amichevoli con gli Andreoli, che permangono quando ormai ha fatto di Urbino la propria sede fissa. Nel 1531 egli firma piatti istoriati sui quali specifica che sono stati eseguiti "in Urbino", e che tuttavia recano il lustro (76). Nel 1532 si aggiunge a lustro la lettera "N" (77), che l'anno precedente aveva fatto la sua prima apparizione su una coppa a rilievo con San Sebastiano dei Civici Musei di Pavia (78). Anche per il 1533, anno in cui la presenza di Vincenzo è documentata a Gubbio, su molte opere urbinati dell' Avelli continua a esserci il suo presunto monogramma (79). In proposito, il Mallet segnalò un curioso particolare, che sugli esemplari firmati dall'Avelli in Urbino dal 1531 al '33 i racemi a lustro sembrano voler coprire intenzionalmente sia la firma che il nome della città, come se Maestro Giorgio, che in precedenza era stato l'unico a siglare le opere dell' Avelli, fosse irritato da questa manifestazione di orgoglio e indipendenza (80). In seguito il fenomeno cessa, forse per la sempre maggiore fama del pittore, e illustro non si sovrappone più alla scritta in blu.

L'Avelli si mostra artefice di qualità particolare, più colto della media dei suoi pari, capace di utilizzare in maniera originale le fonti grafiche cui attinge, combinando le e piegandole ai propri scopi. Ottiene co composizioni originali e altamente efficaci. Attorno a lui ruota tutto un gruppo di pittori che ne condividono in parte le caratteristiche, e attingono alle medesime stampe. Il Mallet li chiamò "compagni e seguaci" dell' Avelli, e anch'essi mostrano la stessa predilezione per illustro. Talvolta sembrano richiamarsi maggiormente ai modi di Nicola, come nel caso del "Milan Marsyas Painter? (81), così denominato convenzionalmente dal Mallet per un piatto da lui dipinto con la Gara fra ApoUo e Marsia, nel Castello Sforzesco di Milano. Il suo periodo di attività, oltre che su basi stilistiche, lo si può desumere dalla data 1535 tracciata a lustro su un frammento con Agenore dormiente, Europa e il toro del Victoria and Albert di Londra, completato a terzo fuoco (82). Profondamente influenzato da Nicola, da cui deriva la maggior parte delle stilizzazioni e la delicatezza del tratto, se ne distingue in quanto i suoi personaggi sono meno vari negli atteggiamenti, ed hanno volti meno espressivi. I paesaggi non hanno la stessa profondità, e persino la scrittura non è cosi accurata. A lui viene attribuito un servizio policromo eseguito probabilmente verso il 1530, contrassegnato da uno stemma con tre crescenti, disposti due in basso e uno in alto. È possibile che si tratti di una variante dello stemma Strozzi, oppure delle famiglie Cosi o Detti (83), o dell'impresa dei Manetti di Firenze (84). Accanto al gruppo con questo stemma ce n'è un secondo nel quale i crescenti sono disposti due sopra e uno sotto, e che è stato dipinto da Francesco Xanto A velli. Si discute se si tratti di un secondo servizio o piuttosto di parte del precedente affidato a un diverso pittore o addirittura a una differente bottega, come capitava talvolta per commissioni di grossa mole. Di certo la somiglianza di colore e di smalto fra i due gruppi è tale che l'esecuzione deve essere avvenuta nello stesso ambito, oltre che nello stesso periodo (85), confermando il legame fra i due pittori.

Del tutto in sintonia con l'Avelli anche sotto il profilo stilistico è invece del Pittore L, un collaboratore di Xanto che compare qualche anno più tardi. Egli sigla con questa lettera alcune opere del 1533, e la sua mano è riconoscibile in alcuni piatti datati 1534 e 35, per lo più a lustro.  

 

Di recente il Wilson, nel pubblicare una targa del 1536 in cui la L appare sviluppata in "LU UR", ha ipotizzato che si tratti di un Luca o Lucio da Urbino (86), la cui maniera negli anni fra il '33 e il '36 non presenta una particolare evoluzione, forse proprio per l'eccessiva subordinazione al suo maestro. In seguito, non è più possibile seguirne il percorso, né rintracciare altre opere a lui ricollegabili. Quanto ai suoi inizi, occorre ricordare che almeno tre opere, 

fra cui una famosa coppa a lustro datata 1529 con Giove e Semele nell' Iparrniìdészeti Mùzeum di Budapest recante la scritta "MO Giorgio da Ugubio" (fig.13), pur essendo del tutto nei modi dell' Avelli, sono stranamente siglate in blu "FLR" (87). F R starebbe per Francesco da Rovigo, mentre la L non trova spiegazioni valide, a meno che non si tratti di una curiosa collocazione del contrassegno del nostro pittore, che rispecchierebbe così il suo ruolo di stretto collaboratore del maestro.

Contrariamente a quanto accade per il piatto del 1532 con la Presentazione della Vergine al tempio attribuito a Nicola, nel caso dell' Avelli, come nel caso di L, le opere a lustro di quello stesso anno e successive recano per lo più a terzo fuoco non la sigla di Giorgio, ma la lettera N che, come abbiamo visto, è forse il monogramma di Vincenzo. Poichè però il nome di questi compare ancora in documenti redatti a Gubbio nei due anni successivi, e solo a partire dal 1538 sembra acquisire una bottega a Urbino, le ipotesi sono aperte: si tratta veramente della sua sigla? Aveva l'autorità di apporla, quando ancora si trovava nella bottega paterna, senza affiancarle quella di Giorgio, come avviene invece nella coppa con la Bella di San Pietroburgo (fig.9)? Disponeva egli forse di una base a Urbino prima di affittare quella di Nicola, pur continuando a recarsi spesso a Gubbio, o collaborava con il più anziano maestro, utilizzando la sua bottega per produrre lustri anche quando egli era ancora vivo? Per questi interrogativi non esiste risposta, a meno che non giunga da nuova documentazione di archivio.

Il Maestro del lustro N fornisce il proprio apporto anche a un pittore la cui sigla è S (88). Le due iniziali, la N a lustro e la S in blu, si intrecciano curiosamente nel retro di un piatto con la raffigurazione del Rapimento di Ganimede ad opera dell'aquila di Giove, datato il 1538 (scheda n. 23).
Compaiono invece separate su una coppa in collezione privata (scheda n.24) eseguita all'incirca nello stesso periodo, con la scena di Tiberio che riceve i messi della Cappadocia. Allo stesso pittore vanno attribuite, anch'esse a lustro, la coppa del Petit Palais con Diana e le figlie di Niobe, e quella in collezione privata con Giuditta. Esaminando questa che è a nostro avviso la sua produzione certa, perché stilisticamente coerente e, a parte il piatto con le figlie di Niobe, siglata, è evidente nel Pittore S una grande affini con Nicola, ovvero con il Pittore del Marsia. Le fisionomie mostrano stilizzazioni simili, con i visi a mandorla, i nasi diritti, l'espressione dolce, le membra forti e le giunture strette. Lo stesso avviene per il paesaggio, dalle basse montagne azzurre ai cui piedi si stendono gli edifici di lontane città, preceduti da bracci lacustri. Il suolo è ondulato, le rocce nerastre, gli alberi serpentiformi con una ricca chioma "a cavolfiore". Tutti questi elementi sono però rielaborati in maniera molto personale e riconoscibile. Tuttavia, mentre la somiglianza con le tipologie di Nicola salta all'occhio nei primi tre esemplari, nella coppa con Giuditta il pittore sembra invece accostarsi maggiormente all' Avelli. Non si tratta però di un'esecuzione più tarda, di una evoluzione che gradualmente sottrae S a un influsso per farlo entrare in un'altra orbita. Il suo momento più avelliano infatti egli lo tocca col Teasel service (89) che reca la stessa data, 1538, della coppa di Tiberio. Il servizio è suglato, e questo attesta che S ne è l'autore. Se così non fosse, passerebbe 

 

certo per opera dell' A velli. Potrebbe dunque trattarsi di un giovane stretto fra due personalità più forti, che oscilla fra l'una e l'altra prima di trovare la sua via. Come già il servizio Gonzaga-Paleologo, anche questa peculiare situazione stilistica di S testimonia a suo modo gli stretti contatti che devono essere intercorsi tra l'A velli e Nicola negli anni immediatamente precedenti la morte di questi. Parte integrante del sodalizio doveva essere il Maestro N, forse Vincenzo Andreoli. Egli non solo applica illustro sulle figure, ma riempie i retri con ramoscelli l'i curvi schizzati e un po' disordinati, che danno l'impressione di una mano veloce e imprecisa anche se sicura.

Circa l'identità del Pittore S, abbiamo qualche anno fa proposto il nome di Sforza di Marcantonio de Julianis, noto soprattutto per la sua attività pesarese, che data dal 1550 al 1576 circa. Sforza firma appunto con la lettera S, ed era nativo di Casteldurante. Quando si trasferisce a Pesaro, egli vi porta una forte componente urbinate, che fa pensare a una formazione avvenuta in questa città. Il Mallet ipotizzò per primo un suo soggiorno a Urbino, di cui trovò le tracce in una serie di opere datate a partire dal 1544 (90). A noi sembra, individuando il Pittore S, di aver trovato una fase ancora precedente di Sforza. Certo si tratterebbe di una lunga carriera, ma i suoi contemporanei Giorgio Andreoli e Guido Durantino ci offrono per l'appunto esempi di eccezionale longevità anche professionale.

Vincenzo di Giorgio Andreoli acquisisce la cittadinanza urbinate il 13 marzo 1544 (91). Circa le sue relazioni professionali, è interessante notare che il 4 febbraio dello stesso anno, regolando con atto notarile le sue pendenze con il vasaio Giovanpietro di Antonio da Bergamo, ricorre quale testimone a Guido Durantino. Dovevano dunque esservi fra i due rapporti di mutua fiducia se non di amicizia. Ancora nel 1546 troviamo tracce di Vincenzo a Urbino, testimone in un atto del 22 febbraio, nel quale viene definito "incola Urbini", Il 2 febbraio dell'anno successivo però vengono regolati i suoi rapporti col fratello nella gestione della bottega paterna, ed egli appare definitivamente rientrato a Gubbio (92). In coincidenza, illustro sembra esaurirsi lentamente a Urbino. Un esempio tardo è fornito dalla Fabulatriee de baeeho della Wallace Collection di Londra, datata 1543 (fig.15), di un artefice che per lo più non ne fa uso. È sintomatico il fatto che anche il Pittore S vi rinunci nella sua seconda fase di attivi, a partire dal'44. È assente dalla produzione dei Fontana, nome che Guido Durantino assume a partire dal 1553 e trasmette ai suoi figli e nipoti, e anche in quella dei Patanazzi. La grande tradizione dell'istoriato urbinate continua per tutta la seconda metà del Cinquecento, ma senza lo scintillìo dei lustri, che sono evidentemente passati di moda. 

Nel frattempo, a Gubbio l'officina Andreoli si specializza sempre più in un'unica tipologia, sulla quale ormai sembra concentrare la maggior parte della sua produzione: la coppa su basso piede con decorazioni a rilievo, su cui si dispongono radialmente pigne, infiorescenze, fiamme, mentre al centro predominano stemmi, emblemi e figure di santi (schede nn. 30-36).
Qu
esta produzione, i cui inizi si collocano all'incirca nel 1530 (93) è piuttosto seriale e ripetitiva, ma non manca di un suo fascino. Si presta particolarmente a porre in risalto lo scintillìo del lustro, ed aveva probabilmente un grande successo commerciale. 

Nel campo degli istoriati, è ancora da segnalare un piatto con scena di rapimento dell'Herrnitage di San Pietroburgo, datato 1545 (94) che sul retro, circondata da tre gruppi di ramoscelli incurvati a lustro, reca una firma illeggibile, che non è assolutamente quella di Giorgio, ma che può leggersi come "Gileo" (fig. 14). È possibile si tratti del ceramista menzionato negli 

 

elenchi dei membri dell'arte dei vasai per l'anno 1541 (95), il retro del piatto è però ornato nella tipica maniera degli Andreoli. A partire dal 1535 fino al 1586 è documentata anche l'attività di un maestro della famiglia Floris o De Floribus, Vittorio detto "il Prestino", capace di applicare illustro con grande efficacia. La sua opera più famosa è un piatto nella Wallace Collection di Londra con Venere e Cupido, firmato e datato 1557 (fig.16). Può darsi gli appartenga anche la coppa del museo di Palazzo dei Consoli con la Madonna e il Bambino, firmata "P." o il piattello con ornato fitomorfo in collezione privata, che reca la stessa iniziale (v. scheda n. 28). In questo caso anch'egli avrebbe eseguito un genere considerato finora tipico della bottega Andreoli. 

Prestino scompare fra il 1586 e il 1588, Vincenzo aveva fatto testamento nel 1576. Questi sembrano essere gli ultimi maestri del lustro a Gubbio, dove non si spegne però l'arte della ceramica, anche se i vasai si indirizzano verso una produzione più semplice, volta al vasellame da farmacia e a quello di uso quotidiano

l) Per la tecnica del lustro islamico, vedi Caiger Smith 1985, pp. 210-212.

2) Middeldorf 1955, tav.l.

3) Inv. G 619, in Wilson 1987, n.16 p. 31

4) Per la tecnica del lustro italiano, peraltro descritta dal Piccolpasso con riferimento alla bottega di Vincenzo
A
ndreoli (libro II, cc. 46-50), vedi Busti 1989. 

5) Per illustro di Cafaggiolo, vedi Alinari 1991.

6) Per illustro a Faenza, vedi Liverani 1968 e Ravanelli Guidotti 1995.

7) Per illustro a Pesaro, vedi Bettini 1992.

8) Biganti 1987, pp. 214-215.

9) Parigi, Museo del Louvre, inv. OA 1885, in Giacomotti 1974, n.92.

IO) Fiocco - Gherardi 1988, pp. 83-86.

11) Sabelli 1680, p. 223.

12) Fiocco-Gherardi 1996. 

13) Vedi ad esempio l'esemplare dell'Ashmolean Museum di Oxford,
proveniente dalla collezione Fortnum, in Wilson 1987, n.193.

14) Satolli 1990, p. 239.

15) Di sicuro il padre Pietro viene definito "da Pavia", e nel documento di supplica del 1552 citato più avanti Giorgio chiama sua patria la città lombarda.

16) Vedi commento all'edizione comense di Vitruvio del 152l.

17) Pera li 1923.

18) Vanzolini 1979, pp. 245-246.

19) Biganti 1987, p. 212.

20) Filippini 1942.

21) In un documento del 4 ottobre 1523 è detto " .. .in domo magistri Georgii Petri figuli de Andreolis" (Mazza tinti 1898b, p.58). 

22) Per un regesto, sia pure incompleto, dei documenti relativi alla ceramica eugubina, vedi Fiocco-Gherardi 1995, pp. 255-264.

23) Fiocco-Gherardi 1997, pp. 16-18.

24) New York, Metropolitan Museumof art, Lehmann Collection, inv.1975.1.1015, in Rasmussen 1989, n. 62 p. 100.

25) A scopo esemplificativo, vedi Giacomotti 1974, nn. 747-750, 759-770.

26) Inv. C 477-1921, in Rackham 1940a, n. 641.

27) Inv. F 396, in Kube 1976, p. 60.

28) Il termine risale al XVI secolo (vedi ad esempio i termini del contratto fra Maestro Giorgio e Giovanni Luca da Casteldurante
nel 1525), ed è usato anche nel Piccolpasso. Vedi libro 1II, c. 57, paragrafo195: "Molti sonno che per fare gli penelli sutili, da dipingiare gli istoriati, sogliono mescholarvi alchuni peli o vogliam dire mostachi di sorci ... ".

29) Come avviene, ad esempio, per le opere dell"'In Casteldurante Painter". 

30) Ad esempio, la coppa con il Sepolcro di Sant'Ubaldo del Victoria and Albert di Londra, inv. 476-1921, è datata "1521" nella parte anteriore, e "1522" a lustro in q uello posteriore (Rackham 1940a, n. 670).

31)  Giannatiempo Lopez 1997. 

32) La coppa un tempo si trovava nella collezione Courtauld, ed è attualmente in collezione privata di Bremen (Rackham 1928-29, p. 92) 

33) Il piattello è il n.13 dell'elenco del Cadi (vedi Sannipoli 1989, p. 616) e reca, sul retro, una mano che stringe un'armaprobabilmente un'alabarda, Un altro piattello, infatti, reca sul retro lo stesso emblema e la stessa data, ed è decorato a grottesche (Londra, Victoria and Albert Museum, inv. C.477-1921). 

34) Libro II, c. 46 verso. In passato, il termine "forniti" fu interpretato come "forniti da altri". Fu il Guasti a chiarire che significava finiti, cioè già decorati e cotti, secondo l'accezione che la parola aveva nel secolo XVI (Guasti 1902, pp.174-175). 

35) Per una sintesi sull'argomento, vedFiocco-Gherardi 1989, pp. 436-455.
36) Ballardini 1938, tav. IV


37) È sintomatico in proposito l'atteggiamento del Ballardini, che nel COI'PUS attribuisce tutti gli esemplari a lustro con grottesche e trofei e la quasi totalità degli istoriati a Urbino o Casteldurante. Il Rackham invece, nel catalogo delle maioliche del Victoria and Albert da lui curato nel 1940, conserva l'attribuzione a Gubbio per gli istoriati del "Pittore di Sant'Ubaldo" e per quello del piatto Dutuit, da lui ritenuto lo stesso delle Tre Grazie.

38) Mazzatinti 1898c, pp. 80-81 ("vasa per eum dipinta recte et storiata ... ").

39) Chompret 1949, I, p.114.

40) Su questo pittore, vedi una sintesi in Fiocco-Gherardi 1995, pp. 35-36.

41) Inv. 1942.9.350, in Wilson 1993, p.169.

42) Ballardini 1933, nn. 89 e 90.

43) Di questo servizio ci sono noti tre esemplari: uno nel Musée national de la ramique di Sèvres, con la Nascita di Adone (inv. 21049, in Giacomotti 1974, n. 827); uno in collezione privata di Torino con due putti di cui uno in atto di arrampicarsi su un albero (Ballardini 1933, n°110): un terzo nel Victoria and Albert Museum, con la Morte di Piramo e Tisbe (inv. 788-1855, in Rackham 1940a, n.
671).

44) Oltre all'esemplare dell'Hermitage qui riprodotto, un altro piatto del servizio con Mercurio, Herse e Aglaure si trova nel
Fitzwilliam Museum di Cambridge (inv.C. 79-1961, in Poole 1995, n. 296), e un terzo con una giovane donna in atto di ferire un giovane legato si trova nel Metropolitan Museum of Art di New York (inv. 65.6.10). E' dubbia l'identificazione dello stemma (Turamini di Siena?).

45) Secondo il Rackharn (1940, I, p. 225) si tratterebbe proprio dello stesso pittore. Due piatti con questa raffigurazione,
entrambi datati 1521 sul fronte e 1522 a lustro sul retro, si trovano rispettivamente nel Victoria and Albert Museum di Londra
tibidem, II, n. 670) e nel Metropolitan Museum of Art di New York,
inv.1975.1.1091, in Rasmussen 1989, n.116.

46) Rackham 1940, I, pp. 223-224.

47) Wilson 1993, p.171, p.180.

48) Fiocco-Gherardi 1995, pp. 257 e 260.
V
edi anche Gnoli 1923, p. 236.

49) Mallet 1979, VI, p. 279.

50) Si tratta di una coppa con Marsia
scorticato da Apollo, un tempo nella raccolta Robert Bak, vedi ibidem, p. 290 n.l, tav. XCIII.

51) Londra - VA.M. Inv C. 2157-1910.

52) Ermeti 1997, pp.19-63.

53) Per una sintesi sulla figura e l'opera di Guido, compresa la bibliografia preesistente, vedi Mallet 1987.

54) Conti 1971, n.16.

55) Oltre al saggio già citato del Mallet, che in appendice elenca le opere sicure di Guido, tutti gli esemplari noti del servizio  Montmorency sono riprodotti in Rasmussen 1989, pp. 258-260.

56) Rackham 1940b, pp.182-188.

57) Negroni 1985.

58) Mallet 1982, pp.175-178.

59) Negroni 1985.

60) Per il 21 ottobre 1533 il nome di Vincenzo compare in pagamenti per forniture al monastero olivetano di San Pietro di Gubbio, e così pure per il 26 settembre 1534 (Menichetti 1987, II, p.157).

61) San Pietroburgo, Museo dell' Ermitage, inv. F 1695.

62) Per un possibile repertorio del pittore, o comunque per un gruppo di oggetti strettamente affini al piatto col Fetonte, vedi Fiocco-Gherardi 1995, p.38 e scheda n. 21 p. 75.

63) Inv. 1877.20.101 e 1877.20.100, in Curnow 1992,1111.68 e 69.

64) Mallet 1987, pp. 296-298.

65) Ceramica Italiana del Rinascimento, 1981, n.102 p. 30.

66) Il servizio, che reca le armi di Federico II Gonzaga e di sua moglie Margherita Paleologo fu fatto in occasione o successivamente al matrimonio, avvenuto nel 1531. Appartiene alla maniera tarda di Nicola, caratterizzata, secondo la definizione del Mallet, da un tratto più sciolto e dall'abitudine di ombreggiare estensivamente le carni in color ruggine (Mallet 1982, p.198). Sembra appartenere allo stesso servizio, recando le stesse armi, anche un piatto con Alessandro e Roxane datato 1533, nelle collezioni del Victoria and Albert Museum di Londra (inv, 1748-1855), eseguito però da Francesco Xanto Avelli.

67) Si tratta di un documento che potremmo definire sindacale del 7 agosto 1530, in cui Nicola di Gabriele, Guido Durantino, Guido Merlini , Giovanni Maria di Mariano e Federico di Giannantonio, venuti a conoscenza che alcuni dipendenti dell'arte avevano pattuito compensi p favorevoli della media, si impegnano a non assumere nessuno di loro a nessun prezzo senza l'assenso degli altri maestri. Fra i dipendenti le cui pretese si intende calmierare c'è Francesco da Rovigo, ovvero l'Avelli che in quel periodo lavorava evidentemente da libero professionista, senza una propria bottega (Negroni 1985, p.18). In un documento del 1531 è poi chiamato "rnro Franc.o Sanctini de Rovigo civi Urbini" (Cioci 1993, p. 45 nota 227).

68) Si tratta di Carlo V alla presa di Goletta, con la scritta sul retro "In Urbino nella / boteg di Francesco / de Siluano/X.", vedi Marryat 1868, pp. 63-64, e Mallet 1971, p.182.

69) Scatassa 1904, p.199.

70) In particolare, vedi Rackham 1957 e Mallet 1971 e 1976.

71) Mallet 1988, pp. 67-69.

72) Rasmussen 1989, p. 130.

73) Cfr. ad esempio due piatti del Castello Sforzesco di Milano, inv. M 142 e M 226, firmati prima dell'argomento, che si conclude con nota "y", mentre un terzo, inv. M 217, termina con "historia y"(Petruzzellis Scherer 1980, figg. 8 - 9,11-12,19-20).
74
) Inv. Dutuit 1092, in Join-Dieterle1984, n. 70. 

 


75) In tutti i casi l'''ypsilon fi" è tracciato in blu, come l'argomento, tranne che nella coppa di Arezzo, dove il pigmento è un giallo di tono molto particolare che ci è sempre sembrato, anche a un esame ravvicinato, un tipico esempio di lustro che, a causa della posizione, non ha sviluppato l'iridescenza. Il quesito potrà comunque essere risolto con un'analisi del pigmento.

76) V. ad esempio il piatto con Anfiarao ed Erifile del Musée d'Art et d'Histoire di Bruxelles, e quello con lo stesso soggetto, più uno con San Girolamo e un terzo con La morte di Cleopatra dell'Hermitage di
S
an Pietroburgo).

77) Piatto con Enea ed Anchise, ex Spitzer.

78) Inv. H 45.

79) Vedi ad esempio il piatto con Roma/o, Remo e la lupa, del British Museum di Londra, inv. MLA 1854,2-13,l.

80) Mallet 1988, pp. 68-69.

81) Mallet 1988, pp. 70-73.

82) Mallet 1988, p. 72. Fra esse, il frammento del Victoria and Albert di Londra in Rackham 1940a, n. 733, datato "1535".

83) Borenius 1930, p. 46 n. 40.

84)Rasmussen 1989, p.126. L'autore
sottolinea come i crescenti nell'impresa
degli Strozzi sono sempre accompagnati da
fiamme.

85) Rasmussen 1989, p.70.

86) Wilson 1993, p.27

87) Firenze, Museo del Bargello, frammento di piatto con un'immagine di donna e amorino, e la scritta sul retro "Nosse te ipsum", non datato (Conti 1971, n. 41); Londra, British Museum, inv. MLA 1970,12-11, l.

88) Per questo pittore, vedi Fiocco-Gherardi, 1996.

89) Per esso, vedi Wilson 1993, p. 210.

90) Mallet 1988, pp. 82-84.

91) Negroni 1985, p. 20.

92) Mazzatinti 1898b, p. 61. l successivi documenti di archivio relativi alla sua attività lo indicano sempre residente a Gubbio. Negli anni 1555-58 si parla di lui nel manoscritto del Piccolpasso, a carta 46v del II libro, dove viene descritta la tecnica del lustro: "questo ho veduto in ugubio in casa di un m" Cencio di dettluogo".

93) Fiocco-Gherardi 1989, pp. 418-419. Sono datate "1530" una coppa con fiamme e IHS centrale del British Museum di Londra, inv. MLA 1878, 12-30,394, e una con San Sebastiano entro ovali a rilievo e infiorescenze dei Civici Musei del Castello visconteo di Pavia, datata "1531".

94) Inv. F 376. Menichetti 1980, p. 253.

 


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