Tesori nascosti: la collezione di maiolica italiana del Musée de la Tour du Mulin à Marcigny

Carola Fiocco - Gherardi Gabriella, in "Faenza", bollettino del Museo internazionale delle ceramiche in Faenza, LXXXVIII, 2002, 1-6, p. 73-109

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tav.I
Tav.I

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tav.II
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Tav.III
Tav.III

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tav.IV
Tav.IV

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tav.V
Tav.V
Tav,VI
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Tav VII
Tav VII

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tav.IX
Tav.IX

 

 

 

 

 

 

 

 

Tav,X
Tav,X

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tav,XI
Tav,XI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tav.XII
Tav.XII

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tav.XIII
Tav.XIII

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tav.XIV
Tav.XIV

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tav.XV
Tav.XV

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tav.XVI
Tav.XVI

 

Je m'intéresse,entre autres,à un petit musée local installé dans un cadre merveilleux pour un nusée, car il est fait d'une tour moyenâgeuse,coiffée d'un chapeau de tuiles que soutient la plus admirable charpente qu'il soit possible de voir[1]: così Charles Damiron, studioso e collezionista, autore di numerosi saggi e di piacevoli libri di memorie, descrive il museo di Marcigny (Saône et Loire), uno dei  più affascinanti della provincia francese. E' ospitato in un antico mulino a forma di torre (Tav.Ia), il cui soffitto è un capolavoro di carpenteria lignea. La torre è la sola parte rimasta di un priorato cluniacense di Benedettine, fondato da Sant'Ugo nell'XI secolo; il nucleo dell'attuale edificio risale al XV secolo, e presenta un aspetto quasi di fortezza, accentuato dalla superficie a rustico bugnato, alleggerita da bifore gotiche e da elementi scultorei inseriti nella muratura.

Il museo fu fondato, nel 1913, da François Ginet-Donaty e Jean Baptiste  Derost. Inizialmente, le sue collezioni erano dovute soprattutto a ritrovamenti locali e donazioni da parte di abitanti del luogo e di altri centri del Brionnais. Un deciso salto di qualità avvenne proprio grazie al Damiron,  che, verso la fine degli anni quaranta, ormai ottantenne, scelse di ritirarsi nelle vicinanze, a Saint-Loup d’Artaix, in una bella casa sulle rive della Senna[2]. Fin dal 1931 era stato membro associato della Société d’Etudes du Brionnais, rimpiazzata nel 1936 dalla associazione Les Amis des Arts de Marcigny et la région, di cui fu socio fondatore e, nel 1938, presidente onorario del consiglio di amministrazione. Quando nel 1949 si rese vacante la presidenza dell’associazione, in seguito alla morte del Dr. Durcroux, il Damiron accettò di prenderne il posto. Da quel momento il Museo di Marcigny fu al centro dei suoi interessi, e divenne sua costante preoccupazione arricchirlo. Non soltanto fece dono al museo di parte delle proprie ceramiche, del cui allestimento si occupò personalmente, ma sollecitò l’affidamento in  deposito, da parte del Musèe des arts decoratifs di Lione, anch’esso da lui beneficato, di 40 pezzi di diverse manifatture, sia francesi che straniere, che andarono così a completare la collezione di ceramica di Marcigny. Volle poi creare una seconda sala, al primo piano, dedicata alle statue di legno e di pietra dal XIII al XVIII secolo. In questa sala, che porta anch’essa il suo nome, è esposto all’entrata il ritratto del donatore, rappresentato con un albarello in mano(Tav.Ib)

Grazie a lui, dunque, quello che pareva destinato a rimanere un museo di interesse prevalentemente locale divenne un contenitore di oggetti splendidi, tali da costituire una grande attrazione per i visitatori. L’esposizione è affascinante, pur nella sua eterogenità: accanto ai capitelli e alle sculture provenienti dal priorato stesso, essa comprende raccolte di minerali e fossili di grande interesse, che documentano insediamenti preistorici della zona, e strumenti di alchimia che la tradizione vuole usati addirittura da Cagliostro. Per gli appassionati della ceramica vi sono i vasi della spezieria dell'Ospedale, più di 100, attribuibili a manifatture nivernesi; duedrageoirs di Bernard Palissy, oggetti di Delft, Alcora, Moustiers, Rouen, Lione e altre manifatture europee.

 Ma quello che veramente lascia senza fiato è uno straordinario gruppo di maioliche italiane,  databili dal XIV al XVIII secolo,  che sono esposte  al piano terra, nella prima delle due sale dedicate al Damiron. 

Con due sole eccezioni esse provengono, come abbiamo visto, dalla sua raccolta personale, e   sottolineano insieme la  perspicacia del collezionista e la volontà di rendere importante il museo prediletto, con la presenza di alcuni oggetti di gran pregio. 

I due esemplari che non provengono direttamente dal Damiron sono comunque dovuti al suo interessamento:  egli  non si limitava infatti a donare personalmente, ma sollecitava gli amici  a fare lo stesso, anche se non avevano rapporti diretti con Marcigny.  I fratelli Stora ad esempio, antiquari parigini, offrirono al museo una vetrata del rinascimento e una pietra tombale del XIV secolo.  A sua volta Paul Gillet, l’industriale tessile lionese che destinò la sua collezione  quasi per intero al Musée des arts décoratifs di Lione,  donò al Musée de la tour du moulin un esemplare straordinario, un tempo nella  collezione Delsette di Bologna, il grande piatto da parata con l’effigie di Piero Strozzi (Tav.II), sul quale è il caso di soffermarsi. 

Come già rilevava il Frati nella  catalogazione Delsette del 1844[3], il piatto non si distingue tanto per la qualità dell’esecuzione, quanto per il suo interesse storico. Vi è infatti raffigurato un protagonista della resistenza senese, che difese la città subito prima della sua caduta: Piero o Pietro, figlio di Filippo  Strozzi, fuoruscito fiorentino al servizio del re di Francia. Questo capitano insigne, sebbene troppo animoso amator di pericoli[4], è raffigurato in monocromia blu su fondo giallo, mentre attraversa al galoppo un fossato, fra la città di Siena e le fortezze di Radicofani e Monticchiello. Vestita con armi classiche, la sua figura domina la scena, simile al mitico eroe romano Marco Curzio, la cui immagine incisa dal Raimondi ha fornito il modello al pittore maiolicaro (Tav.IIIa).  Marco  si sacrificò per la patria, Piero combatteva in effetti contro l’esercito della sua città natale, Firenze. Tuttavia egli è qui il protagonista della resistenza all’odiata famiglia dei Medici, considerati usurpatori, e, soprattutto, si tratta del punto di vista senese. In basso, graffita sul blu, è la scritta “Uiua cecho dal/ borgo/ 1554”. Questo Cecco (Francesco) dal Borgo, è a nostro avviso il nome di colui che commissionò il piatto, forse un vecchio compagno d’armi di Piero, che aveva combattuto insieme a lui durante l’assedio; per questo gratifica se stesso con la parolaviva, evviva, che lo rende partecipe della gloria del capitano. Il bacile dovrebbe essere stato eseguito non molti anni dopo gli avvenimenti, quando questi erano ancora carichi di significato, e ben presenti  nella mente di molti. Ormai fuggito dall’Italia, morto nel 1558 in Francia mentre combatteva al servizio del duca di Guisa nell’assedio di Thionville, Piero dovette restare a lungo, nella Toscana medicea,  un personaggio innominabile, oggetto di una damnatio memoriaepressoché completa. Ecco però che un suo fedele gli dedica un omaggio, scegliendo per farlo un oggetto molto grande (quasi mezzo metro di diametro), destinato ad essere appeso, e quindi visibile ed ostentato. Per questo, oltre che per  motivi stilistici e cronologici, escluderemmo un’origine toscana del pezzo.

Un’attribuzione secentesca a officine di Montelupo è stata suggerita per un piatto del Castello Sforzesco estremamente affine, anch’esso con un cavaliere tratto dalla stessa incisione[5] (Tav.IIIb).  Questo piatto, pur essendo realizzato in policromia su fondo bianco e quindi cromaticamente diverso, presenta però analogie strettissime nel modo di rendere l’anatomia e quasi tutti i particolari del paesaggio, all’infuori degli alberi, meno calligrafici. Le rocce sono sagomate allo stesso modo, come pure gli edifici sullo sfondo, e l’analogia diventa impressionante nella resa anatomica della muscolatura, evidenziata dall’armatura. Entrambi gli esemplari ci sembrano stilisticamente associabili alle immagini che compaiono, entro medaglioni, su un gruppo di vasi farmaceutici circondati dal motivo “alla porcellana colorata”, e datati 1548[6]. Non soltanto si ripetono il caratteristico modo di stilizzare le rocce e la stratificazione nell’uso del colore, ma anche l’intonazione popolaresca delle fisionomie (Tav.IIIc). La nostra attribuzione del gruppo, che abbiamo chiamato “alla porcellana colorata”, oscilla fra le Marche e l’Abruzzo, con una propensione decisa per quest’ultima regione, nelle cui officine vengono talvolta usati i fondi giallo intenso su cui spiccano figure delineate in blu[7]. In questo ambito porremmo dunque anche il “Piero Strozzo”. Ci sembra verosimile che Cecco si fosse allontanato, dopo la caduta di Siena, e rifugiato in un luogo sicuro, dove appendere al muro l’immagine dell’odiato nemico di Cosimo non comportava alcun rischio particolare. Il piatto con Piero Strozzi è, per quanto ne sappiamo, l’unico caso nella maiolica italiana in cui questo personaggio è raffigurato, e costituisce un omaggio commovente a un capitano che ha perso, ma anche combattuto eroicamente per l’indipendenza di una grande città, in una guerra già in partenza priva di prospettive di successo.  

Un altro amico del Damiron e del Gillet, il barone Rinck, anch’egli collezionista di tutto riguardo, donò al museo di Marcigny un piatto con una figura femminile, su sfondo di paesaggio (Tav.IV).  Difficile chiarire il significato di questa donna anziana, avvolta nel mantello, che indica con gesto drammatico una città lontana appena visibile all’orizzonte, sovrastata da una catena di montagne. Il retro è bianco, completamente privo di scritte esplicative. La tipologia e l’intensità dei colori ne pongono l’esecuzione in ambito veneziano, dove anche i maiolicari appaiono coinvolti in quella particolare sensibilità cromatica che costituisce una delle glorie della pittura locale.  E pittore, oltre che maiolicaro, era con ogni probabilità Domenico (Domenego), cui va attribuito il pezzo. Con entrambi i termini viene infatti chiamato nel testamento del pittore veneziano Zouan Maria, redatto nel 1547[8], forse in riferimento a una duplice attività, forse in omaggio a uno stile che, pur esercitato sulla maiolica, appare in effetti vicino alla  pittura, in particolare a quella del Veronese, per il segno pastoso, l’ampiezza delle forme e il colore intenso e lumeggiato di bianco. 

Anche se le notizie di archivio  testimoniano come Domenico fosse in piena attività fin dagli anni quaranta, le opere datate a nostra conoscenza vanno soltanto 1562  al 1568[9].  Nella botega al ponte selo del taiapiera a preso a san polo[10], che non sappiamo se fosse sua o  soltanto l’ospitasse per un certo periodo come decoratore a contratto, egli eseguì grandi piatti a soggetto biblico; la sua specialità sembra però essere stata la ben nota tipologia di  vasellame farmaceutico ornato con busti maschili e femminili entro medaglioni, circondati da una ricca vegetazione fiorita, su fondo blu intenso. Eseguì anche tutta una serie di piatti e coppe di varie dimensioni, con personaggi  singoli o comunque in numero ridotto, per lo più estrapolati da stampe di composizione più complessa. Essi  hanno talvolta un significato allegorico o mitologico di semplice comprensione, ma più spesso non sono identificabili con precisione, e rappresentano piuttosto dei tipi: pastori, giovani donne, vecchi, cavalieri, contadini, putti etc.. A queste ultimo gruppo appartiene il piatto di Marcigny, databile più o meno agli anni sessanta e che trova riscontro, fra l’altro, in alcuni oggetti analoghi dell’Herzog Anton Ulrich Museum di Braunschweig [11]

Fatta eccezione per questi due esemplari, il resto delle maioliche rinascimentali italiane presenti nel Musée de la Tour du Moulin è dovuto alla generosità di Charles Damiron, compreso quello che è, a nostro avviso, il  gioiello della collezione, eccezionale per rarità e qualità di esecuzione: un grande piatto privo della tesa, su cui è raffigurato il “Trionfo della Luna”, complessa  allegoria tratta da un’incisione del monogrammista PP[12] (Tav.Va,b;VIa,b).  Tutt’intorno si stende una fascia a grottesche su fondo blu, mentre il retro è ornato alla porcellana in monocromia blu, con al centro uno straordinario “trofeo” d’armi, reso purtroppo meno nitido da una leggera fusione dello smalto in cottura.

Il pittore si esprime mediante stilemi ben riconoscibili; le fisionomie in particolare, con i visi larghi e piatti, quasi a seme di melone, i profili aguzzi, volti verso l’alto, sormontati dal casco ricciuto dei capelli, i vecchi con la lunga barba, le membra tozze ma nervose e ben delineate, l’anatomia del tronco spesso sottolineata dall’armatura, il ventre leggermente prominente, costituiscono un insieme di facile identificazione.  Non sono molte le opere attribuibili allo stesso pittore: indichiamo con sicurezza un piatto con Adamo ed Eva presso l’albero del Bene e del Male, nel museo dell’Hermitage di San Pietroburgo[13](Tav.7a,b); un piatto con una scena non ben identificata, dove un personaggio anziano consegna a un guerriero il modello di un edificio, nel museo del Louvre a Parigi[14] (Tav.7c,d); una coppa con Orazio Coclite che difende il ponte Sublicio dai nemici Etruschi (Tav.VIIIa,b), in collezione privata. Quest’ultima  è dipinta su smalto berettino, e reca in alto lo stemma della famiglia Mazzolani di Faenza. Nelle opere citate, anche gli ornati sul retro e il tipo di grottesca, specie nel piatto del Louvre e in quello di Marcigny, indicano una produzione faentina. Il piatto dell’Hermitage è sotto questo aspetto piuttosto insolito, recando sul retro un profilo sommariamente tracciato fra ghirigori.  Le grottesche che circondano la scena biblica, una su fondo blu e una su fondo arancio, sono fra le più belle e fantasiose che sia dato vedere per qualità e vivacità, mentre quelle attorno al piatto del Louvre sono di tipo più consueto. In ogni caso, i caratteri faentini sono evidenti anche nel modo di trattare il paesaggio e le montagne sullo sfondo, che sembrano sollevarsi ai lati, quasi assecondando la curvatura del cavetto. Malgrado ciò, l’attribuzione a Faenza non è del tutto scontata, dal momento che è possibile identificare lo stesso autore in un  piatto con tesa a trofei su cui è rappresentata Giuditta che esce dalla tenda di Oloferne, e ne ripone la testa in un sacco, aiutata dall'ancella (Tav.VIIIc,d).  Sul retro infatti un cartiglio   specifica chiaramente che l’opera è  “FA(TA) I(N) FOR(L)I”[15]. L’identità del pittore ci appare certa: non soltanto si ripetono le caratteristiche fisionomie, ma anche il peculiare modo di tracciare i cespugli in lontananza, come ventagli lobati sovrapposti[16], che appartiene al repertorio di questo specifico autore. 

Dunque egli operò anche nella città vicina, Forlì, dove nel secolo XVI erano attive botteghe in grado di fornire istoriati di alto livello: pensiamo al Maestro Girolamo (Jeronimo), presso il quale fu eseguito il piatto del Victoria and Albert Museum di Londra con Gesù fra i dottori[17]; a Leocadio Solombrino, a tutti quegli istoriati che recano scritto il nome di Forlì, alcuni dei quali sicuramente sarebbero stati creduti di Faenza senza questa indicazione precisa, perché affini nei modi e negli ornati, ed eseguiti talvolta su smalto “berettino”. Lo stesso Pittore della coppa Bergantini sembra avere fatto una puntata forlivese, se è autore, come riteneva il Rackham, della coppa del Victoria and Albert Museum con Davide e Golia, su smalto berettino, e la scritta “FATA IN FORLI” [18]

E’ difficile dire se il Pittore del Trionfo della Luna (e di Giuditta, di Adamo ed Eva, e del piatto Louvre con scena non identificata ) abbia passato una parte della sua vita a Forlì e si sia poi trasferito a Faenza, oppure abbia operato in una sorta di pendolarismo che doveva essere abbastanza frequente, vista la vicinanza dei due centri. Ci sembra comunque che la sua attività vada inquadrata non solo nella storia della maiolica faentina, ma anche in quella forlivese, per il momento pochissimo studiata e di conseguenza piuttosto sottovalutata.

E’ possibile fare qualche ipotesi ulteriore?  Noi intendiamo riferirci a lui, da ora in poi, come al “Pittore del Trionfo della Luna di Marcigny”. Non ci sfugge però l’estrema affinità stilistica che lo lega al Pittore P nella bottega di Francesco Torelli, come risulta dalla scritta che compare su un frammento di piatto del Museo di Faenza datato “1522” con l'Incredulità di Tommaso (Tav.IXa), la cui mano è stata riconosciuta dal Rackham e dal Liverani anche in una targa del Victoria and Albert Museum con la Lavanda dei piedi, siglata "PO"[19]. E’ interessante notare che lo stesso pittore fu già dal Liverani messo in relazione con Pietro, che appone la sua firma come autore su una mattonella del pavimento Lombardini di Forlì(Tav.IXb), e con “Pietro dal Castel”, autore di un famoso piatto stemmato del Museo civico medievale di Bologna[20]. Fra Pietro, autore di quest'ultimo piatto (che ci sembra di fattura schiettamente romagnola), e i modi del Pittore del Trionfo della Luna di Marcigny esiste una notevole affinità nelle fisionomie; basta esaminare attentamente le figure della Giuditta e dei putti che animano le elaboratissime candelabre della tesa, per riscontrare caratteristiche tipologiche e di proporzioni piuttosto somiglianti (Tav.Xa). Inoltre i trofei, in particolare gli elmi dalla terminazione smerlata e dall'apertura ad angolo retto con un piccolo cerchio nel punto di incontro fra le due linee, sormontati da piume ricurve, si ripetono praticamente uguali nella tesa del piatto con Giuditta eseguito a Forlì(Tav.Xb).  Aggiungeremmo che le analogie ci sembrano molto strette anche con la coppa monocroma nelle collezioni dell’Hermitage di San Pietroburgo, contrassegnata nella parte anteriore dalla sigla C.I (o G.I), non necessariamente quella dell'autore[21] (Tav.Xc). L'analisi del piatto di Marcigny e del suo pittore apre dunque possibilità quanto mai interessanti, già intraviste in parte dal Liverani nella sua relazione del 1956[22], complicate dai continui rimandi fra Faenza e Forlì, città vicinissime ed entrambe sede di manifatture ceramiche dedite agli istoriati.

Un’altra rarità del museo di Marcigny è costituita da una targa rettangolare, su cui è dipinto in monocromia marrone il Ratto delle Sabine, entro una cornice di grottesche blu a rilievo su fondo giallo(Tav.XIIa). La scena  è tratta da un fregio che Polidoro da Caravaggio dipinse all'incirca nel 1525 sulla facciata di Palazzo Ricci a Roma[23]. Il maiolicaro non sembra però si sia servito dell’affresco originale, ma di una incisione di Cherubino Alberti (1553-1615), sicuramente eseguita dopo il 1589, poiché reca una dedica al Granduca di Toscana Ferdinando dei Medici, che solo in quell’anno ereditò il titolo (Tav.XIb). A parte l’abitudine dei maiolicari di servirsi di stampe e quasi mai di dipinti, c’è da notare infatti che sia l’incisione che la targa sono  rovesciate rispetto all’originale,  e rappresentano la stessa porzione di fregio. Una targa gemella[24], priva però di cornice, si trova attualmente in deposito nel museo di Palazzo Venezia a Roma, ed è stata sottoposta per ben due volte ad analisi di  termoluminescenza [25], risultando autentica. L’analisi è significativa in quanto le due targhe appaiono del tutto isolate nel contesto della maiolica italiana, e non esistono appigli sicuri per collocarle e datarle con precisione; si prestano dunque a presunzioni di falsificazione di epoca storicistica. Lo stesso Molaroni di Pesaro eseguì, agli inizi del secolo, alcune copie della targa di Roma [26]; tuttavia, per quanto si può rilevare dalle riproduzioni del catalogo della ditta, esse appaiono ben riconoscibili, e non tali da poter essere confuse con degli originali. Le due targhe sono quindi con ogni probabilità autentiche, e nella loro rarità vanno considerate esemplari importanti, creati per una committenza di riguardo, anche se non siamo in grado di rilevarne l’ambito[27]. 

Fortunatamente, non tutti gli esemplari della collezione di Marcigny aprono la porta a dubbi e problemi attributivi. Alcuni rientrano in produzioni nobili ma consuete, con innumerevoli riscontri, e sono di facile collocazione. Ad artefici ferraresi, e alla fine del secolo XV,  appartiene il bacile “a graffito” con  due giovani elegantemente abbigliati (Tav.XIIa): avvolta in una lunga veste a pieghe, la fanciulla è intenta a suonare un violino, con lo sguardo perso nel vuoto; lui le sta accanto, e indica  verso l’alto. E' l'evocazione di un mondo idealizzato, di alta genealogia, bei modi e  bei costumi, così lontano dalla vita reale. Molto è stato scritto sulla cultura della corte estense, raffinata e impregnata di neoplatonismo, da cui scaturiscono queste immagini, che richiamano da vicino la pittura locale. Anche l’uso di elementi ricorrenti, quali lo steccato che si profila dietro le figure, e che viene interpretato come hortus conclusus, appartiene al repertorio della pittura tardo-gotica, oltre ad alludere araldicamente a una delle imprese estensi. La sua presenza isola ulteriormente i personaggi in un ambiente privilegiato, fiabesco, dove dominano modi cortesi e cavallereschi. Il gesto del giovane, se non è casuale, potrebbe  suggerire la sublimazione amorosa in chiave mistico-religiosa, secondo i canoni neoplatonici: ogni amore, anche se terreno, va ricondotto infine a quello divino[28]. Malgrado i numerosi tentativi di individuare a Ferrara una produzione di maiolica, e la presenza di artigiani provenienti  dalla stessa Faenza, è la tecnica del graffito a prevalere, e ad elevarsi a livelli di notevole elaborazione formale e simbolica.  In questa tecnica gli artigiani ferraresi trovarono il loro mezzo espressivo preferito e il materiale adatto, la terra rossa che permette il contrasto fra il solco e la tonalità chiara dell’ingobbio. Il tono rossiccio del fondo diviene un colore a se stante, nella profondità dell’incisione e nelle zone in cui l’ingobbio è asportato a spatola, e si armonizza con il beige chiaro dominante, striato, sotto l’invetriatura, dal bruno del ferro e dal viola del manganese. A parte un piattello di dimensioni più piccole, con un delizioso profilo di giovane circondato da motivi embricati, il bacile è l’unico esempio di tecnica a graffito rinascimentale presente a Marcigny.  

Assai limitata è anche la maiolica "arcaica", rappresentata da un unico esemplare che appartiene alla produzione trecentesca di Orvieto: si tratta di un boccale dall’alta base a piedistallo sul quale, fra pigne a rilievo, spiccano le tre bande rastellate dello stemma Monaldeschi  (Tav.XIIb). A partire dal 1334 Ermanno Monaldeschi si impossessò della signoria di Orvieto, portando così al culmine il potere della famiglia, che rimase a lungo fra le più notabili della città[29]. Lo stemma ricorre spesso nella maiolica orvietana trecentesca, privo naturalmente dei colori appropriati; i tre rastrelli posti in banda dovrebbero essere azzurri su campo d'oro, ma i maiolicari si limitano a utilizzare il verde e il bruno consueti per l'epoca. Non vi sono comunque dubbi sull'identificazione dello stemma,  nemmeno quando, intenzionalmente o per incuria dell'esecutore, esso viene rovesciato, e le bande diventano sbarre. Anche le pigne a rilievo, che formano una specie di tralcio al cui interno è custodito lo stemma, rientrano nella prassi orvietana, e derivano forse la loro ispirazione dai grappoli d'uva sui marmi che il Maitani fece scolpire all'esterno del duomo[30]. 

Durante tutto il secolo XIV, è innegabile una decisa supremazia di Orvieto su tutti gli altri centri di produzione dell'Umbria. Col secolo successivo, tuttavia, essa cede il passo alla piccola Deruta, i cui imprenditori sono sostenuti finanziariamente da mercanti e banchieri della vicina Perugia. Nella seconda metà del Quattrocento, i ceramisti derutesi si affermano per una grande varietà di maioliche estremamente raffinate e di alto livello, i cui ornati spesso si ispirano alla pittura  coeva. A questa produzione appartiene il boccale tardo-quattrocentesco con il profilo della " Lvcretia B(ella)", racchiuso entro una ghirlanda legata da nastri ondulati, secondo uno schema destinato a caratterizzare la produzione derutese (Tav.XIIc). E' noto che la raffigurazione delle "Belle", pur diffusa nella ceramica rinascimentale di molti altri centri, costituisce per Deruta una vera e propria specialità, al punto che un poeta tuderte, Andreano da Concole, consacra con un sonetto questa particolare vocazione a celebrare la grazia muliebre[31]. Questo avviene soprattutto con i  grandi piatti da pompa cinquecenteschi, che tendono ad esaltare un tipo di bellezza peruginesco, flessuoso e un po' estenuato, e sono destinati ad essere appesi al muro come fossero quadri.  Non mancano però le "Belle" anche su oggetti più legati all'uso - albarelli, vassoi per brocca, boccali - che assolvono insieme la funzione pratica e quella celebrativa. Inutile illudersi che possa trattarsi di ritratti; si ripetono le stesse fisionomie, ed è evidente che il maiolicaro teneva a disposizione nella propria bottega alcuni modelli cui associava via via nomi diversi, a seconda delle richieste. Ciò non toglie che il genere rimanga uno dei più affascinanti nella storia della ceramica, per il suo richiamo all'amore e alla bellezza; talvolta anche alla pena d'amore, come avviene in un piatto del Musée des arts décoratifs di Lione, su cui è scritto "E più a mente non mi tenete, e se son bella perché non mi volete ?"[32].  Il boccale di Marcigny sembra legarsi, per i colori freddi, rialzati  da un tono ocra intenso, alla fase del cosiddetto "petal-back"[33], a cavallo fra i due secoli, forse la più raffinata e interessante nella lunga storia della maiolica di Deruta; né la "Bella Lucrezia" cede, per eleganza di esecuzione e brillantezza di colori, alla contemporanea più famosa produzione a lustro, col suo esibito richiamo all'oro e ai metalli preziosi.

L'antico Ducato di Urbino deve la propria fama ceramica, nel secolo XVI,  soprattutto  all'utilizzo, come decorazione, di scene e storie complesse, per lo più derivate da stampe e da disegni.  A uno dei due centri principali del Ducato, Casteldurante o Urbino, appartiene la coppa su cui sono rappresentati un vecchio e una donna in abiti classici, in atto di dirigersi verso un altare su cui è allestito un sacrificio (Tav.XIIIa).  La presenza , tutt'intorno, di una ghirlanda di boccioli e foglie lanceolate verdi e di una fascia a soprabbianchi non lascia dubbi sull'origine marchigiana della coppa, ma non permette di distinguere fra i due centri, presso i quali era ugualmente prodotta. Lo stile delle figure ricorda invece quelle eseguite da un pittore anonimo presso la bottega di Guido di Merlino, a Urbino[34].

Semplice in apparenza, in realtà assai problematico è il grande piatto con Abramo che, dopo la vittoria riportata contro un comune nemico, viene omaggiato dal re di Sodoma (Tav.XIIIb,c). Sia la scena che i versi a commento scritti sul retro ("E quando il Re di Sodomo ebbe / Visto del grando Abramo la felice / Vittoria") provengono dal volume Figure del antico et nuovo testamento illustrate da versi ulgari italiani, stampato a Lione da Jean de Tournes nel 1554, e si debbono rispettivamente a Bernard Salomon, che ha inciso le illustrazioni, e a Damiano Maraffi, che ha composto il testo. Il piatto, contornato sulla tesa da grottesche su fondo bianco, minute ed elaborate, indica quale luogo di esecuzione Urbino, e la bottega dei Fontana, Orazio o Guido. L'epoca di esecuzione va posta dopo il 1560, dal momento che il primo utilizzo di tali grottesche viene generalmente collegato al

 “Servizio spagnolo”, eseguito presso i Fontana fra il 1560 e il 1562, per essere donato da Guidobaldo II duca di Urbino a Filippo II. Il servizio era illustrato con scene della vita di Giulio Cesare,  i cui disegni erano stati forniti da Taddeo e Federico Zuccari. E' solo a partire da quel periodo che cominciano a svilupparsi nella ceramica urbinate le grottesche su fondo bianco, spesso associate al nome di Raffaello, che ne elaborò di simili per le Logge vaticane, ma che era morto una quarantina di anni prima, senza che alcuno potesse spiegare in maniera convincente perchè i maiolicari urbinati avessero aspettato tanto a utilizzare il motivo. Di recente si è visto che  molte fra le grottesche eseguite dai Fontana nel corso degli anni '60 derivano dall'edizione orleanese del 1550 delle  Petìtes Grotesques di Jacques Androuet I Ducerceau, architetto disegnatore e incisore francese[35]. E' possibile dunque che proprio la disponibilità di questo repertorio in coincidenza con una commissione prestigiosa come il Servizio spagnolo abbia innescato l'utilizzo di un tale genere di grottesche, e che in seguito il repertorio sia stato ampliato mediante altre fonti grafiche o per la creatività degli stessi pittori maiolicari, e riutilizzato innumerevoli volte. Il nostro piatto rappresenta un bell'esempio di queste raffaellesche, come vengono talvolta chiamate, intercalate da piccoli cammei dipinti che  riprendono le gemme incise, così frequenti nella decorazione antica. Le perplessità nascono quando ci si rende conto che esso costituisce la copia pressoché esatta di un piatto conservato nel Museo civico di Pesaro[36], che non solo ha lo stesso soggetto, ma presenta uguali particolari esecutivi sia nella scena centrale che nelle grottesche di contorno. Le differenze sono veramente minime, e riguardano elementi della decorazione del tutto secondari. Ci si chiede dunque se è possibile una replica di bottega così esatta, o se ci troviamo di fronte a una copia successiva, per quanto estremamente ben fatta. L'esemplare di Pesaro proviene dalla collezione del cavaliere Domenico Mazza (1753-1847), che fu iniziata a partire al 1827 e pervenne al museo nel 1857[37]. Per il piatto di Marcigny non siamo riuscite a risalire a prima del Damiron; è dunque quest'ultimo il più esposto a eventuali dubbi di autenticità, anche se non bisogna dimenticare che all'interno delle botteghe era prassi comune replicare le opere . 

 Capita talvolta nelle collezioni di antiche maioliche, anche le più prestigiose, di trovare esemplari  che  risultano oggi poco convincenti, mentre in passato venivano accettati senza troppe riserve.  E' questo il caso di un bellissimo boccale di sembianze tardo-gotiche (Tav.XIVa,b), con un pavone dalla coda spiegata e una pavoncella magnificamente dipinti, che appare di difficile collocazione, e con qualche sospetto che si tratti di produzione di revival della seconda metà dell'Ottocento,  sia pure eccezionalmente ben fatta. Il boccale fu pubblicato nel 1944 dal Damiron in un raro catalogo della sua collezione[38], nel quale egli non avanza dubbi circa l'epoca di esecuzione, ma non propone nemmeno un'attribuzione precisa. La decorazione infatti, pur ispirata chiaramente a modelli della seconda metà del secolo XV,  non rientra pienamente nei canoni di alcuna produzione nota.    

Indiscutibilmente autentica, e ben collocabile, è invece la statuetta raffigurante la Madonna, eseguita anch'essa a Urbino, probabilmente presso la bottega dei  Patanazzi (Tav.XIVc);  appartiene a una produzione plastica abbastanza diffusa, di grande varietà, che risale al tardo Cinquecento o agli inizi del Seicento, epoca in cui Francesco e il figlio adottivo Alfonso furono a capo della bottega[39].   I colore del mantello, di un azzurro-turchese molto particolare, si ritrova tale quale in  alcuni piatti di recente attribuiti ai Patanazzi, nei quali esso viene utilizzato come tono di base, quale variante del più azzurrato "berettino"[40]. 

Alla stessa epoca appartengono due  vassoi compendiari(Tav.XVa,b), per i quali  è accettabile un'attribuzione a Faenza, soprattutto per la grazia leggera e la rapidità di tocco che caratterizzano i putti centrali. La ghirlanda esterna, al contrario, ci sembra più rigida del solito, specie nel profilo nettamente ovale delle fogliette gialle che la ravvivano, e che nella produzione faentina   sono in genere frastagliate e decisamente più pittoriche. 

Come si vede, la collezione rinascimentale di Marcigny è tale da non sfigurare, per qualità, rispetto a quelle di musei ben più ricchi e famosi; si presta inoltre a studi e analisi, fornendo spunti quanto mai interessanti, e su cui vale la pena continuare a lavorare. Essa comprende anche altri oggetti, fra cui due targhe di soggetto mitologico, probabilmente di bottega cinquecentesca urbinate, che meriterebbero di essere prese in considerazione; ma la nostra è soltanto una selezione, che  trascura necessariamente molte cose. Uscendo dalla "grande epoca", la maiolica italiana del museo diventa  meno ricca di esemplari di eccezione, e rivolta piuttosto a una produzione seriale, anche se di pregio. Concluderemo questa breve rassegna con tre oggetti che, per gusto e destinazione, contrastano nettamente fra loro, e appartengono ad ambiti molto diversi. Si tratta infatti di  una tulipaniera, di fattura  settecentesca ligure (Tav.XVc), eseguita per un ente  religioso francescano di cui porta l'emblema, e che rivela un notevole aggiornamento alle tipologie olandesi coeve; di un piatto da servizio di committenza nobiliare, anch'esso settecentesca ma milanese, caratterizzato da estrema raffinatezza e preziosità nell'uso di motivi simili alla porcellana e di colori a piccolo fuoco (Tav.XVIa); infine, di una saliera plastica più tarda, produzione  di Ariano Irpino, caratterizzata da una vivace intonazione popolaresca (Tav.XVIb). Nella loro diversità, essi testimoniano quella spontanea curiosità e quell'atteggiamento disponibile ai generi più differenti, nonché indulgente al proprio gusto personale anche a rischio di eclettismo, tipici dei grandi collezionisti della prima metà del secolo. Il Damiron era sicuramente restio a rinchiudere entro confini angusti le proprie scelte, e spaziava volentieri, all'interno di uno stesso materiale, fra i tipi più diversi, assecondando le inclinazioni e le occasioni del momento. E se questo va forse a scapito dell'omogeneità di una collezione, sicuramente ne aumenta il fascino e la fruibilità da parte del pubblico, qualità questa da non trascurare.



 


[1] "Mi interesso, tra le altre cose, di un piccolo museo locale, installato in una cornice meravigliosa per un museo, perché è fatto da una torre medievale acconciata con un cappello di tegole, sostenuto dalla più ammirevole carpenteria che sia possibile vedere" (da Charles Damiron, Ma vie passionante de Collectioneur, Lyon 1958 p. 175.

[2] Per ogni notizia sulle relazioni fra il Damiron e il Musée de la tour du moulin di Marcigny, facciamo riferimento all’articolo del conservatore del museo, M. Marcel Perrot, « Figure de Marcigny :  Charles Damiron (1868-1864) », Mémoire Brionnaise, 2° trimestre 2001, pp. 60-61 (cita come fonte le memorie di Henri Robillard inRegistres del délibérations. Bulletins de la Société d’Etudes du Brionnais 1913-1914) 

[3] L.Frati , Di un'insigne raccolta di maioliche dipinte delle fabbriche di Pesaro e della provincia metaurense, Bologna 1844, n.278 p. 54 

[4]P,Litta  et al., Famiglie celebri italiane, fascicolo 72 (Strozzi di Firenze), parte III, Milano 1875, tav.XX 

[5] Inv. N. 291.  V. G.Biscontini Ugolini  - J. Petruzzellis Scherer,Maiolica e incisione. Tre secoli di rapporti iconografici, Vicenza 1992, n.28 p. 94. Più di recente, Raffaella Ausenda  estende l'attribuzione, dubitativamente, all'area tosco-laziale (Museo d'Arti Applicate / Le ceramiche/ Tomo primo, Milano 2000, p. 430-31 n. 8a) 

[6] C. Fiocco  - G. Gherardi, Alcune considerazioni sull'Orsini-Colonna, il servizio Bø, il servizio T e la 'porcellana colorata', "Faenza", LXXVIII (1992), 3-4, tav. XXVIII a-d.

[7] Le maioliche cinquecentesche di Castelli, catalogo di mostra, Pescara 1989, p. C36, fig. n. 483 e 484; C42, fig. n. 360 e 368;  tav. 15 n.22-25; p. C8, fg.C, n. 53,56;  C9, fig.D, n.57; C10, fig. 123; C11, fig. 116 e 124. 

[8] E. Concina, Un contributo alla definizione della cronologia ed all'ambiente di Maestro Domenico da Venezia, "Faenza", LXI, 1975, 6, p.136.  La prima notizia relativa al maestro risale a qualche anno prima, 1544, quando egli viene menzionato nel testamento di un altro maiolicaro,  Giacomo da Pesaro, di cui aveva sposato la figlia (A.Alverà Bortolotto, Maiolica a Venezia  nel Rinascimento, Bergamo 1988,  pp.24 e 97-98)

[9] Per questa data, l’ultima riscontrabile nella produzione firmata di Maestro Domenico, cfr.  tre piatti, di cui due, rispettivamente conMosè davanti al Faraone e con Miriam che ricorda l’episodio del Mar Rosso, si trovano nell’Herzog Anton Ulrich Museum di Braunschweig (invv. 1154 e 628,  ripr. in J.Lessmann , Herzog Anton Ulrich Museum Braunschweig, Italienische Majolika, Katalog der Sammlung, Braunschweig 1979, nn.737 e 738), e uno con il Passaggiodel Mar Rosso e le Storie di Giuseppe si trova nel Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza (inv.21149, in G.C. Bojani et alii,  La donazione Galeazzo Cora, ceramiche dal medioevo al XIX secolo, Milano, 1985, n.805) .  Vi è inoltre un albarello, anch’esso datato “1568”,  conservato nel Museum fur Kunsthandwerk di Francoforte (Alverà Bortolotto, op.cit. 1988, tav. XC). 

[10] Così è scritto dietro un piatto con scene bibliche da lui firmato, della collezione Cora del Museo delle Ceramiche di Faenza, datato 1568; la stessa indicazione, in termini leggermente diversi, compare anche altrove, v. ad es. J.Lessmann, op.cit. 1979, n.737

[11] In particolare, cfr. Lessman 1979 op.cit. nn.635 p. 420 e 793 p. 487

[12] Per una sintesi della questione riguardante il monogrammista PP,  v. The Illustrated Bartsch 25 (Commentary), Early Italian Masters, by Mark J. Zucker, New York 1984, 437-451

[13] Kube Alfred N., Leningrad State Hermitage Collection, Italian majolica XV-XVIII centuries, Moscow 1976, p.  32

[14] Inv. OA 7570; Giacomotti Jeanne, Catalogue des majoliques des musées nationaux. Musées du Louvre et de Cluny, Musée national de céramique à Sèvres, Musée Adrien-Dubouché à Limoges, Paris 1974 n. 341

[15] dono del conte Pietro Guarini, diam. cm 41

[16] Il confronto va fatto con i cespugli nel piatto con Giuditta e in quello del Louvre.

[17] B. Rackham , Victoria and Albert Museum. Catalogue of Italian Maiolica, 2 voll., London 1940

[18] Inv. 4317-1857, Rackham 1940, op.cit., n. 806. 

[19] Inv. C.94-1915, Rackham 1940, op.cit., n. 263

 [20]  G. Liverani , Una sconosciuta bottega maiolicara del primo cinquecento a Faenza, "Faenza" XLIII, 1957, I, p. 3-11.  Concordiamo col Liverani nel ritenere il piatto di Bologna assolutamente romagnolo, di esecuzione faentina o forlivese.  Il termine “castello” è presente nella toponomastica di quasi tutte le città, e non è più significativo di quanto lo sia il “borgo” nel piatto con Piero Strozzi

[21] A.Darcel - A.P. Basilewsky , Collection Basilewsky, Paris 1874, tav. XLIII 

[22] Il citato articolo del 1957è costituito dal testo di una comunicazione fatta da Giuseppe Liverani l'anno precedente alla riunione scientifica del Kunsthistorisches Institut di Firenze, allora diretto da Ulrich Middleldorf.

[23] Per le annotazioni iconografiche e cronologiche inerenti la targa, v. T. Wilson , Italian Maiolica of the Renaissance, Milano 1996 (non distribuito), n.127 p. 307, con riferimento alla targa simile di collezione privata conservata a Roma, menzionata di seguito.

[24] Il colore di fondo è  diverso, giallo anzichè marrone, del tono che, nel piatto di Marcigny, fa da fondo ai motivi della cornice.  La mano ci sembra invece indiscutibilmente la stessa.

[25]  Wilson 1996 cit.

[26] Ci sembra l’ipotesi più probabile, in quanto sono prive di cornice

[27] Sulla base dell’insolito pittoricismo della targa di Roma, la Gardelli ne ipotizza l’esecuzione in ambito estense da parte di un pittore occasionalmente volto alla maiolica, ad esempio Biagio Pupini, collocandola attorno agli anni 1536-’40 (G.Gardelli , Un quadro di pur di maiolica, "Fimantiquari" n.00, 1992, p. 54-61) 

[28] Per un accenno sull'argomento, limitatamente alle raffigurazioni ceramiche, spesso ricche di implicazioni neo-platoniche,  v. C.Fiocco - G. Gherardi, Vasellame amoroso e neoplatonismo a Faenza, "Romagna arte e storia", 2, 1981, p. 68-77. 

[29] A.Satolli, L'iconografia araldica dei Monaldeschi e le ceramiche della rocca di Bolsena, estratto da Atti della giornata di studio "I Monaldeschi nella storia della Tuscia", Bolsena 224 giugno 1994, con l'aggiunta di 33 schede di ceramiche, Bolsena 1995, p. 114

[30] A. Satolli,  Fortuna e sfortune della ceramica medioevale orvietana, in Ceramiche medioevali dell'Umbria:  Assisi Orvieto Todi, catalogo di mostra, Firenze 1981 p. 69-71

[31] F. Briganti, Le coppe amatorie del XVI secolo nelle maioliche di Deruta, Perugia 1903, p. 13-15

[32] "EPI/ VA/ME/NTEN° METENETE/ ESIS°/ BELL/APERCH NO/MEV°L/ETE"; dono di Paul Gillet, inv. 1943.

[33]B. Rackham, A new chapter in the history of Italian maiolica, "The Burlington Magazine",

XXVII, April 1915, p. 28-35; per una sintesi sull’argomento v. anche C. Fiocco - G. Gherardi, La ceramica di Deruta dal XIII al XVIII secolo, Perugia 1994, p.43-45. 

[34] Cfr. ad esempio Lessmann, op.cit. 1979, n.151-152

[35] C.Poke, Jacques Androuet I Ducerceau's 'Petites Grotesques' ad a source for Urbino maiolica decoration, "The Burlington Magazine", June 2001, p. 332-342 

[36] Mancini Della Chiara Maria, Maioliche del Museo Civico di Pesaro,catalogo, Bologna 1979, n. 229 

[37]  Ibidem, La raccolta Mazza, senza indicazione di pagina.

[38] C. Damiron, Majoliques italiennes, s.l., 1944, p..

[39]  Francesco ereditò la bottega dopo la morte del padre Antonio, nel maggio 1587; a sua volta egli morì il 3 ottobre 1616.  La bottega passò quindi ad Alfonso, che la gestì fino alla morte, avvenuta entro il 1627 (F.Negroni, Una famiglia di ceramisti Urbinati: i Patanazzi, "Faenza", LXXXIV, 1998, 1-3, p. 104-115) 

[40] C.Fiocco - G. Gherardi , Su un piatto con scena biblica nelle collezioni a Palazzo di Venezia in Roma e sul 'gruppo verde' ad esso correlato, "Faenza" LXXXVI, 2000, IV-VI, p. 23-29

 

 

SCHEDE

 

SCHEDA N. 1

PIATTO DA PARATA (Tav.II)

ITALIA CENTRALE, SECONDA META’ SECOLO XVI

H. cm. 9; D. cm.46,5; d. base cm.17,5

Maiolica; retro soltanto invetriato.

Provenienza: Collezioni Geremia Delsette, J.Pierpont Morgan, Paul Gillet

Bibl.  Di un’insigne raccolta di maioliche dipinte delle fabbriche di Pesaro e della provincia metaurense descritta ed illustrata da Luigi Frati, Bologna 1844, n.278 p.54

 

L’oggetto ha forma di ampia campana molto svasata, con orlo estroflesso, su basso piede. Vi è raffigurato un cavaliere in armatura classica, con elmo e spada sguainata, mentre spinge il cavallo a saltare al di là di un  fossato, fra le rocce. Sotto di lui è la scritta “ PIERO STROZZO”. Sullo sfondo si dispongono, da parti opposte rispetto al cavaliere, due castelli fortificati con le scritte “Radicofano” e “Monto chiello”; più in basso è una città cinta da mura, contrassegnata dal nome “SENA”. Il cielo è nuvoloso, due gruppi di alti alberi scaturiscono dal borgo di  Radicofani. In basso, graffiata su una zona di un  blu– obalto intenso (l’acqua?), è la scritta “uiua cecho dal / borgo/ 1554”. La scena è dipinta in monocromia blu su fondo giallo intenso. Il retro è ricoperto di una vetrina giallastra, con sbavature di smalto al bordo; sul piede sono stati praticati a crudo due fori di sospensione. Al centro, sotto la base, è incollata un’etichetta, su cui è scritto a macchina “M.M.111. / A Large “Bacile”, or Dish, made at Faenza / in the Marches, in 1554. Without border. / Decorated over hollow surface with a / scene  representing Mettus Curtius, a / legendary hero of ancient Rome (362 B.C.) / leaping fully armed and on horseback, / into the Chasm of the Forum.  The castle / of Radicofano is depicted at the left, / and the town of Siena at the right.  The / name of Piero Strozzi, Vicar – General of / France in Siena, is inscribed in the / foreground. This plate  was probably / made to commemorate his entry into / that town in 1554 to defend it against / the Florentines. Predominating colours: / blue and yellow. / Middle XVI. Century, Diameter 18 ¼ in. / From the J.P.Morgan Collection.”  Parzialmente sovrapposto all’etichetta è il timbro rotondo della dogana francese con la data “1911”, accanto a cui è stato tracciato il numero 7. 

La fonte iconografica del cavaliere è l’incisione di Marcantonio Raimondi raffigurante Marco Curzio, l’eroe romano che si gettò in una voragine per dare la vittoria alla patria (Tav.III a). Il personaggio rappresentato è però Piero, figlio di Filippo Strozzi, fuoruscito di Firenze e grande nemico dei Medici. Dopo che gli esuli fiorentini furono sconfitti nel 1537 a Montemurlo, e il padre fatto prigioniero e ucciso, Piero continuò a tramare e combattere contro il governo fiorentino, al servizio del Re di Francia. Parve quindi opportuno a Enrico II  inviarlo quale suo luogotenente, assieme al Maresciallo Biagio di Montluc, a difendere Siena che, nel disperato tentativo di conservare la propria indipendenza, si era ribellata al volere dell’imperatore Carlo V e veniva assediata, dal marzo 1554, dall’esercito imperiale, comandato da Gian Giacomo Medici da Marignano. La guerra era in realtà finanziata da Cosimo dei Medici, che a tutti i costi voleva annettersi Siena. Ecco dunque Piero, nel grande piatto, mentre cavalca attraverso il territorio senese,  identificato dalla città maggiore e dalle fortezze di Radicofani e Monticchiello. Non sapremmo indicare il motivo di tale scelta:  Monticchiello, vicinissima a Montelpulciano, era stata espugnata  nel 1553 da don Garcia, e difesa invano da Adriano Baglioni. Questo da un lato aveva causato la perdita di altri castelli, non più difendibili; dall’altro aveva permesso a francesi e senesi di fortificare Montalcino, dove fu possibile continuare per qualche tempo la resistenza quando Siena dovette infine capitolare, il 17 aprile 1555(Dell’Historia di Siena scritta da Orlando di M. Bernardo Malavolti Gentiluomo sanese. La Prima parte nella quale, oltr’a molti fatti seguiti dall’origine di quella città fino all’anno MCCLVIII si narrano cose notabili…in Venezia, Per Salvestro Marchetti libraro in Siena, MDXCIX, p.157). Siena fu dunque sottomessa all’imperatore.  Circa 700 famiglie, lo Strozzi e il Montluc si rifugiarono a Montalcino, ove costituirono un nuovo governo repubblicano e resistettero fino al luglio del 1559.  Due anni prima, nel 1557, Filippo II aveva ceduto Siena con tutto il suo territorio a Cosimo dei Medici, nei confronti del quale era debitore.  Radicofani invece fu uno dei pochi castelli che rimasero in mani francesi anche dopo la resa di Siena. La data sul piatto, 1554, può riferirsi genericamente all’epoca dell’assedio, che però si prolungò fino all’anno successivo.  A nostro avviso, intende piuttosto commemorare un avvenimento preciso, la battaglia di Marciano.  Qui il 2 agosto 1554 Piero sfidò a battaglia il marchese di Marignano, e fu clamorosamente sconfitto, aprendo la strada alla capitolazione senese . Diede però prova di tale eroismo che Enrico II gli spedì dalla Francia, se non gli aiuti richiesti, la patente di maresciallo. “Cecho dal borgo”,  probabile committente, era forse un suo compagno d'armi; all’omaggio verso il comandante, protagonista della scena, accosta quello a se stesso, evidente nella parola “viva”. E’ dunque convinto di aver partecipato a un fatto eroico, anche se sfortunato, e pieno di gloria. Non siamo in grado di fare alcuna ipotesi sull’identità di questo Francesco. Riteniamo che fosse senese, e che “il borgo” alluda a una parte della città o dei suoi dintorni, e non a Borgo San Sepolcro, come si potrebbe pensare.  La scelta del modello iconografico – un eroe che si sacrifica per la patria – può essere del tutto casuale e dovuta alla disponibilità di una stampa adatta, come è probabile; potrebbe però riecheggiare lo spirito della situazione, la difesa della patria, da parte di Cecco e in fondo anche dello Strozzi che, pur essendo fiorentino, si era visto respingere dalla sua città ed ora rischiava la vita per Siena.

Quando e dove fu fatto il piatto? Non molto dopo gli avvenimenti citati, e non in territorio toscano.  Pur presentando qualche affinità con la produzione secentesca di Montelupo, i caratteri stilistici ci sembrano ancora cinquecenteschi, dalle nuvole a chiocciola al modo in cui sono eseguiti gli edifici e il paesaggio. Inoltre Piero Strozzi era un grande nemico dei Medici, e ci sorprenderebbe che nel loro territorio egli potesse venire impunemente celebrato su un oggetto di simili dimensioni. La stilizzazione della figura e il tono dei colori ricordano piuttosto un gruppo di maioliche ancora piuttosto misterioso, che abbiamo esaminato in passato, e che abbiamo chiamato “della porcellana colorata”, la cui attribuzione oscilla fra le Marche meridionali e l’Abruzzo (C.Fiocco-G.Gherardi, op.cit.1992, p.157-166). Il collegamento più immediato è con un piatto delle collezioni del Castello Sforzesco di Milano, su cui è dipinto un cavaliere tratto dalla stessa incisione, questa volta in policromia, ma con alcuni caratteri somatici e del paesaggio assai simili (Tav.III b). Allo stato attuale degli studi, ci sembra che l’attribuzione più legittima per entrambi sia a officine dell’Italia centrale,  seconda metà del secolo XVI.

 

SCHEDA N. 2

PIATTO (Tav.IV)

VENEZIA, DOMENICO DA VENEZIA, CIRCA 1560-‘70

H. cm.4; D.  cm. 25; diam. base cm. 15,5

Maiolica

Provenienza: collezione Rinck

 

Il piatto ha breve tesa estroflessa ed ampio cavetto. Vi è raffigurata una donna anziana, in abiti classici, avvolta in un mantello che le copre anche il capo, in atto di protendere la mano verso l’orizzonte, guardando in alto. Ella è in piedi su un prato, davanti a un gruppo di alberi, mentre sullo sfondo è un fiume o un braccio di mare, al di là del quale si profilano edifici sovrastati da una catena montuosa. La scena è dipinta in policromia, ed utilizza con notevole intensità tutti i colori della maiolica rinascimentale: blu, verde, bruno, giallo, giallo arancio.

Lo stile e il tono dei colori ne assegnano l'esecuzione a Domenico (Domenego), uno fra i più noti maiolicari veneziani del secolo XVI, sicuramente in contatto con l’ambiente dei pittori, di cui condivide la sensibilità cromatica. Già attivo, secondo notizie di archivio, fin dagli anni quaranta, è tuttavia soltanto dal 1562 che disponiamo di opere firmate e datate, a partire da un vaso farmaceutico del corredo per l’Ospedale Grande di Messina, che gli era stato commissionato.

L’attività del maestro si prolunga fin oltre il 1568, anno a cui risalgono le ultime opere firmate e datate. Manca per il momento la documentazione relativa ad una eventuale attività successiva. La coppa di Marcigny dovrebbe dunque risalire  al decennio 1560-‘70. Un nutrito gruppo di oggetti analoghi si trova, fra l'altro, nel museo Herzog Anton Ulrich di Braunschweig (cfr. in particolare n.635 e 793, per l'affinità nella resa delle fisionomie, del paesaggio e dei costumi)


SCHEDA N. 3

PIATTO (Tav.V a,b)

FAENZA O FORLI’, CIRCA 1520-‘40

D.cm. 30

Maiolica

Provenienza:  collezione Damiron

 

Il piatto è stato privato della tesa, probabilmente allo scopo di arrotondarlo dopo una frattura. Attualmente esso termina quindi con la sola parete che circonda il cavo. Vi è dipinta una complessa scena allegorica, che  rappresenta, con molteplici esempi, l’influenza lunare sull’umanità. Il bordo interno reca una fascia a grottesche su fondo blu, entro cui spiccano mascheroni aureolati. Il retro è ornato “alla porcellana”, con un trofeo centrale. I colori sono  blu, verde, giallo, giallo arancio, bruno.

La scena è tratta da un’incisione del monogrammista P P, che viene ripresa in maniera incompleta, e con modifiche, soprattutto nella parte destra (Tav.VI b). L’iconografia della stampa, e conseguentemente del piatto, non è mai stata spiegata nei dettagli; è comunque ritenuta valida l’ipotesi dell’Harzen che si tratti del “Trionfo della luna”, come specifica la dicitura su un disegno a penna di Amburgo, forse studio preparatorio o copia tratta liberamente dall’incisione (M. J. Zucker, in The Illustrated Bartsch, op.cit. n 25, p.445).  La datazione, che costituirebbe un “post quem” per il piatto, è anch’essa difficile da precisare. Considerando prive di fondamento le identificazioni del monogrammista PP con pittori quali Pellegrino da San Daniele o Bernardo Parentino, il Zucker giunge alla conclusione che si tratti di un artista anonimo, attivo nell’Italia nord-orientale durante i primi due decenni del secolo XVI. L’allegoria del “Trionfo della luna”, almeno nel suo primo stato (soltanto delineato e non ancora puntinato, ma già pienamente autosufficiente), dovrebbe essere una delle sue prime opere. Questa precocità è suggerita dai legami stilistici con le correnti mantegnesche dello scorcio del secolo e con l’opera di Amico Aspertini, che indicano anche un ambito di lavoro fra Bologna e Ferrara (ibidem p. 439). La stessa incisione è stata utilizzata da un pittore maiolicaro diverso, ma anch’egli di ambito faentino, per una coppa della collezione Carrand, nel Museo Nazionale di Firenze (Arti del Medio Evo e del Rinascimento. Omaggio ai Carrand (1889-1989), Firenze 1989, tav.16, fig.92 p.298-300). Il pittore del piatto di Marcigny presenta stilemi ben riconoscibili, grazie ai quali è possibile attribuirgli anche le seguenti opere:  un piatto con Giuditta della Pinacoteca di Forlì (Tav.VIII c,d); un piatto con Adamo ed Eva nel Museo dell’Hermitage di San Pietroburgo (Tav.VII a,b); un piatto con un personaggio che consegna a un guerriero il modello di un edificio, nel museo del Louvre di Parigi (Tav.VII c,d); una coppa con Orazio Coclite e stemma  Mazzolani di Faenza, in collezione privata (Tav.VIII a,b). Nessuno degli esemplari citati è firmato o datato. In tutti sono evidenti elementi stilistici tipici della produzione faentina,  tuttavia nel piatto con Giuditta è specificato sul retro che è stato eseguito a Forlì. Questo fa supporre che il pittore operasse in entrambe le città, o che si fosse trasferito dall’una all’altra (o che i caratteri della produzione forlivese siano per molti aspetti indistinguibili da quelli faentini). Evidenti, a nostro avviso, anche le affinità con il pittore che firma nel 1522 un frammento di piatto con l'Incredulità di Tommaso nella bottega di Francesco Torelli, conservato presso il Museo internazionale delle ceramiche di Faenza, siglandolo "P.F." (TavIX a), con "Pietro dal Castel" autore del piatto stemmato del Museo Civico medievale di Bologna (Tav.X a,b), ma anche con i visi dipinti su alcune mattonelle del pavimento Lombardini di Forlì (Tav.IX b) e sulla coppa siglata nella parte anteriore con le iniziali C.I (o G.I), nelle collezioni dell’Hermitage di San Pietroburgo (Tav.X c).  

 

SCHEDA N. 4

TARGA (Tav.XI a)

OFFICINA INDETERMINATA, FINE SECOLO XVI–INIZI XVII

Maiolica

Lunghezza cm. 50,3; larghezza cm.24,0; spessore cm 15 

Bibl.  Wilson Timothy, Italian Maiolica of the Renaissance, Milano 1996, non distribuito, ripr. p. 309 fig b

Provenienza: collezione Damiron

 

La targa, rettangolare, è leggermente incurvata. Vi è dipinto, in monocromia marrone, il  Ratto delle Sabine: in un intrico di corpi, cavalli e armature i romani, combattendo, sottraggono le donne ai loro antagonisti sabini, per farne le proprie mogli. Nell’angolo in basso, a destra, il fiume Tevere, rappresentato come un vecchio appoggiato a un vaso da cui sgorga l’acqua, osserva gli eventi.  Tutt’intorno, la targa è incorniciata da un fregio di grottesche a rilievo, tracciate in blu su fondo giallo. Colori: marrone, blu, giallo.

La scena è tratta da una incisione di Cherubino Alberti (1553-1615), derivata a sua volta, in controparte, da un fregio che Polidoro da Caravaggio dipinse, circa nel 1525, sulla facciata di Palazzo Ricci a Roma . La targa riporta infatti esattamente la porzione di fregio riprodotta nell’incisione, e con lo stesso verso.  Poiché l’incisione reca una dedica al Granduca di Toscana Ferdinando dei Medici,  che ereditò il titolo nel 1589, è  naturalmente successiva a questa data.  Non è dunque azzardato ipotizzare che la targa sia stata eseguita fra la fine del secolo e l’inizio del successivo. Un esemplare gemello, privo di cornice e con il tono di fondo giallo anziché marrone,, si trova in collezione privata,  attualmente in deposito presso il museo di Palazzo Venezia a Roma  (Wilson 1996, op.cit., scheda n. 127). 


SCHEDA N.5

BACILE (Tav.XII a)

FERRARA, FINE SECOLO XV - INIZI XVI

TERRACOTTA INGOBBIATA, GRAFFITA E INVETRIATA

D.cm. 35,0; d. base cm 23

Provenienza:  collezione Damiron

 

Il bacile ha ampio cavo e stretta tesa orizzontale.  Al centro, graffiti sull'ingobbio, sono raffigurati due giovani in piedi su un prato fiorito: la fanciulla, di fronte, è intenta a suonare una viola, mentre il ragazzo, di profilo, l'ascolta indicando col dito verso l'alto. Sullo sfondo è uno steccato, al di là del quale spuntano due alberi; lo spazio fra le figure è riempito da tre rosette. Tutt'intorno alla parete è una fascia di foglie frastagliate, risparmiate sul fondo champlevé.  Attorno alla tesa si dispongono altre foglie, di profilo, ricurve.  I colori, che tendono a scorrere e a distribuirsi in maniera non omogenea, sono il bruno e il verde, ottenuti mediante gli ossidi di ferro e di rame.

La tipologia è abbastanza comune nella produzione ferrarese tardo - quattrocentesca (cfr. ad esempio alcuni frammenti del Museo internazionale delle ceramiche in Faenza, in S.Nepoti, Ceramiche graffite della Donazione Donini Baer, Faenza 1991 n. 44 p. 206-207, e 58-62 p. 213-216).  Per un riferimento cronologico, cfr. il piatto del British Museum di Londra (inv. MLA 1855, 12-1, 207, in T. Wilson, Ceramic Art of Italian Renaissance, catalogo della mostra Londra 1987, London 1987, n. 249 p. 160) sul quale una donna suona la viola con accanto uno scudo su cui è effigiata l'impresa estense della "granata svampante", mentre un giovane regge il "biscione" di Milano, alludendo quasi certamente alle nozze fra Alfonso d'Este e Anna Sforza, avvenute nel 1491 (oppure, ma con meno probabilità, vista la posizione degli stemmi, fra Lodovico Sforza e Beatrice d'Este, avvenuto lo stesso anno).

 

SCHEDA N.6

BOCCALE (Tav.XII b)

ORVIETO, SEC. XIV

MAIOLICA

H.cm. 29,5; d.base cm. 15

Provenienza:  collezione Damiron

Bibl. Ch. Damiron, Majoliques Italiennes, 1944, n. 5 (ripr.)

 

Il boccale ha ventre ovoidale, alta base a piedistallo, collo svasato con beccuccio pizzicato, cui si contrappone un manico verticale a nastro.  La decorazione principale è racchiusa entro un pannello che va da un lato all'altro del manico, delimitato da due fasce con motivi a uncino sovrapposti, ed è parzialmente a rilievo:  consiste in un tralcio di quattro pigne, disposte simmetricamente a due a due, al centro delle quali si erge lo scudo della famiglia Monaldeschi di Orvieto (d'oro alle tre bande rastellate d'azzurro).  Il fondo è "a graticcio", ovvero a tratteggio incrociato, mentre attorno al collo si svolge un motivo a treccia. I colori sono il bruno di manganese e il verde del rame.  I Monaldeschi occupano un posto importante nella storia orvietana, specie dopo che Ermanno, nel 1334,  si impossessò della signoria.  Il loro stemma predomina nell'araldica cittadina, e compare spesso nelle ceramiche, identificabile malgrado i colori alterati, dovuti alla costante bicromia verde-bruna della maiolica trecentesca. Il tralcio a rilievo con pigne (o grappoli d'uva) costituisce un elemento insieme decorativo e simbolico, al centro del quale si trova talvolta una figura umana.  Sia la forma, con base "a piedistallo", che gli elementi decorativi, e in particolare il tratteggio incrociato ("graticcio") del fondo,   indicano la fase "sviluppata" della produzione orvietana, databile al secolo XIV (D. Whitehouse, Introduzione allo studio della maiolica medievale orvietana, in La ceramica orvietana del medioevo, a cura di A. Satolli, catalogo di mostra, Firenze 1983, p. 19). 


SCHEDA N.7

BOCCALE Tav.XII c)

DERUTA, FINE SECOLO XV - INIZI XVI

MAIOLICA

H. cm. 28; d. base cm. 9,7

Provenienza:  collezione Damiron

Bibl. Ch. Damiron, Majoliques Italiennes, 1944, n. 47 (ripr.)

 

Il boccale ha ventre ovoidale su piede svasato, alto collo a bocca sagomata e trilobata, manico a nastro verticale contrapposto al beccuccio.  Vi è raffigurata, entro una ghirlanda di foglie appuntite e bipartite trattenuta da nastri svolazzanti, una donna a mezzo busto, di profilo, elegantemente abbigliata, con collana e una reticella sui capelli, da cui sfugge un ricciolo biondo.  Davanti a lei è dipinto un cartiglio verticale, sul quale è scritto in caratteri capitali LVCRETIA B.  La lettera B è sormontata dal segno di abbreviazione.  I colori sono blu, giallo, giallo ocraceo, verde smeraldo.

Queste tonalità nel complesso fredde, e la forma peculiare del boccale, dall'accentuato profilo piriforme e dal collo stretto, indicano una produzione databile allo scorcio fra cinque e seicento, chiamata dal Rackham, con riferimento a un tipo di retro a petali molto usato nelle forme aperte, "petal - back" (Rackham 1915 op.cit.).  Contemporaneamente i vasai derutesi producevano i primi esempi di lustro, e il profilo di Lucrezia ci sembra avere affinità proprio con alcune "Belle" impreziosite da questa nuova tecnica, e la cui datazione viene in genere ritenuta coeva (cfr. ad esempio il fondo di coppa del Museo internazionale delle ceramiche in Faenza  inv. 11304, in Fiocco Carola - Gherardi Gabriella, Ceramiche umbre dal Medioevo allo Storicismo, Pt. I: Orvieto e Deruta, Faenza 1988, n 231, dove vengono elencati altri esemplari analoghi).

  

SCHEDA N.8

COPPA  (Tav.XIII a)

CASTELDURANTE O URBINO, CIRCA META' SECOLO XVI

D.cm. 30,0; d. base cm.15

Provenienza:  collezione Damiron

 

La coppa, su basso piede, reca al centro una scena sacrificale: un vecchio e una donna, in abiti classici, si accostano a un altare su cui è posto un vitello, adagiato su un fascio di legna, pronto per essere arso.   I personaggi sono raffigurati su un prato, con due alberi sullo sfondo.  Tutt'intorno si svolgono una ghirlanda verde con bacche gialle e una fascia a soprabbianchi; attorno al bordo è un motivo ad archetti. I colori sono il blu, il verde, il giallo, il bruno, il viola.

L'ornato di contorno viene in genere considerato tipico della produzione cinquecentesca di Casteldurante (cfr. ad esempio C. Leonardi, La ceramica rinascimentale metaurense, Roma 1982 n. 136 p. 130; Giardini Claudio, Pesaro, Museo delle ceramiche, Bologna 1996, nn.77 e 79, con attribuzione a Casteldurante).  L'istoriato centrale appare però di fattura urbinate, forse legato ai modi della bottega di Guido di Merlino, e ci sembra estremamente probabile che  le decorazioni a ghirlande e soprabbianchi venissero eseguite indifferentemente anche a Urbino, dove abbondavano i maiolicari di provenienza durantina. 

     

SCHEDA N.   9

PIATTO  (Tav.XIII b,c)

URBINO, AMBITO DEI FONTANA, CIRCA 1560-'70

Maiolica

D. CM. 43,3 ; D. base cm. 24,5

Provenienza:  collezione Damiron

 

Il piatto è ornato, nell'ampio cavetto, con una scena desunta dalla Bibbia: si tratta di un episodio di Genesi XIV,   nel quale il re di Sodoma rende omaggio ad Abramo e gli chiede la restituzione dei prigionieri, dopo la vittoria da questi riportata su un re che in precedenza aveva saccheggiato Sodoma. Tutt'intorno alla tesa si svolge una minuta grottesca su fondo bianco, intercalata da quattro "cammei", alternativamente a fondo bianco e rossiccio.  Sul retro è la scritta, in blu e in caratteri corsivi,  "E quando il Re di Sodomo ebbe / Visto del grando Abramo la felice / Vittoria". I versi sono quelli di Damiano Maraffi per le Figure del antico et nuovo testamento illustrate da versi ulgari italiani, stampato a Lione da Jean de Tournes nel 1554, e in seguito ristampato più volte. La fonte grafica è costituita dall'incisione di Bernard Salomon che, in quella stessa edizione, illustra il testo biblico.  Un piatto del Museo civico di Pesaro reca la stessa scena e, sul retro, la stessa dicitura (Mancini Della Chiara Maria, Maioliche del Museo Civico di Pesaro, catalogo, Bologna 1979, n.

229);.  Anche le grottesche di contorno, salvo qualche minimo particolare, risultano praticamente uguali. L'incisione è stata utilizzata anche per un  piatto del museo Herzog Anton Ulrich di Braunschweig (inv. Nr. 134, Lessmann Johanna, Herzog Anton Ulrich Museum Braunschweig, Italienische Majolika, Katalog der Sammlung, Braunschweig 1979 n. 245), anch'esso attribuibile all'ambito dei Fontana di Urbino, che si presenta però diverso sia nei particolari della scena che nelle grottesche e nell'ornato sul retro.   Le grottesche su fondo bianco vengono generalmente messe in relazione con il il “Servizio spagnolo”, eseguito dai Fontana fra il 1560 e il 1562 , donato da Guidobaldo II duca di Urbino a Filippo II e  illustrato con scene della vita di Giulio Cesare,  i cui disegni erano stati forniti da Taddeo e Federico Zuccari.  Questo porrebbe l'esecuzione del piatto di Marcigny dopo il 1560.  


SCHEDA N.10

BOCCALE  (Tav.XIV a,b)

OFFICINA INDETERMINATA, TIPOLOGIA DELLA SECONDA META' DEL SECOLO XV

MAIOLICA

H. cm. 26,0; diam. base cm. 11,5

Provenienza:  collezione Damiron

Bibl. Ch. Damiron, Majoliques Italiennes, 1944, n. 42 (ripr.)

 

Il boccale ha ventre ovoidale, breve collo svasato a bocca trilobata, manico verticale bipartito contrapposto al beccuccio.   La decorazione attorno al ventre è scompartita:  entro un riquadro centrale sono raffigurati un pavone dalla splendida coda e una pavoncella, su sfondo di paesaggio con due gruppi di edifici.  Il riquadro è delimitato da entrambe le parti da due fascie più strette, all'interno delle quali si dispongono motivi a fiamme orizzontali sovrapposte, intercalate a tratteggi, e file di crocette.   Attorno al collo motivi a fiamma e tratteggi.  I colori sono il blu, il verde, il giallo, il bruno.

La tipologia  cui si ispira il boccale è chiaramente quella tardo-gotica della seconda metà del secolo XV, interpretata con notevole raffinatezza.  Il modo insolito con cui sono eseguite le decorazioni accessorie (fiamme e tratteggi) non permette però di risalire a una zona di produzione precisa, e  dà adito a qualche dubbio circa l'epoca in cui il boccale è stato eseguito.  Non è possibile escludere, a nostro avviso, che si tratti di un rifacimento ottocentesco.


SCHEDA N.11

GRUPPO PLASTICO (MADONNA)  (Tav.XIV c)

URBINO, BOTTEGA DEI PATANAZZI, FINE SECOLO XVI - INIZI XVII

MAIOLICA

H. cm. 37,5; base cm. 12,0 x 12,2

Provenienza:  collezione Damiron

 

La Vergine è raffigurata in piedi, su una base quadrangolare ornata a grottesche, con il Bambino in braccio.  E' aureolata e avvolta nel mantello.  I colori sono il blu, il verde, il verde -turchese, il giallo, il giallo-arancio, il bruno.

Sono frequenti, nella produzione cinquecentesca urbinate, i coloratissimi gruppi plastici, spesso con funzioni pratiche (fiasche, saliere, calamai etc), a soggetto sia sacro che profano.  La tipologia cui appartiene l'esemplare in esame viene in genere attribuito ai Patanazzi, tra la fine del cinquecento e gli inizi del successivo, quando Francesco era a capo della bottega (cfr. fra i numerosi esempi possibili, i due bevitori con funzione di calamaio e il Bacco con funzione di vaso da liquori del museo civico di Pesaro, in Mancini della Chiara op.cit. 1979, n.223 e 235).


SCHEDA N.12

DUE VASSOI  (Tav.XV a,b)

FAENZA? INIZI SEC. XVII

MAIOLICA

Diam. cm. 45,0 x 35,5; cm. 45,0 x 35,4

Provenienza:  collezione Damiron

 

I vassoi presentano entrambi forma ovale, con ampia tesa orizzontale e centro umbonato.  Su entrambi è raffigurato, con tocchi rapidi e quasi a schizzo, un putto alato su un riquadro di prato, mentre attorno alla tesa corre una ghirlanda stilizzata con fogliette blu e piccole bacche ovali di un giallo intenso.  I colori sono il blu e il giallo.

I vassoi appartengono probabilmente alla produzione compendiaria di Faenza, quando i maiolicari si orientano verso gamme cromatiche ridotte e una decorazione eseguita a tocchi veloci.  Non conosciamo riscontri esatti di forma, e la ghirlanda ci sembra insolitamente rigida per le abitudini faentine, specie nell'esecuzione  precisa del contorno delle bacche ovali, più compatibile con la produzione dell'Italia centrale.  L'attribuzione a Faenza è tuttavia sostenuta dalla  qualità leggera e dinamica dei putti, sintetici ed estremamente vivaci.


SCHEDA N.13

TULIPANIERA  (Tav.XV c)

SAVONA, INIZI SECOLO XVIII

MAIOLICA

H. cm. 35,0

Provenienza:  collezione Damiron

 

L'oggetto è composto di tre elementi globulari sovrapposti, nei quali si aprono i "camini" per la fuoruscita dei germogli.  La parte inferiore poggia su un'ampia base svasata, ornata "a peducci"; vi è dipinto, in monocromia blu, entro uno scudo sormontato da corona marchionale, un emblema francescano:  due braccia incrociate da cui si erge la  Croce, sopra un Cuore infiammato. Nella restante superficie sono sparsi mazzetti fioriti, anch'essi monocromi.  Colori:  blu.

La maiolica ligure seicentesca, i cui centri di produzione più importanti sono Savona e Albisola, subisce profondamente l'influenza delle porcellane orientali, per lo più filtrata tramite le maioliche  di Delft .  Da qui  derivano il gusto per la monocromia blu su fondo bianco e alcune forme specifiche, come le tulipaniere o garofoliere, destinate a contenere bulbi.  La forma, in questa specifica variante, è più di frequente associata a decorazioni barocche, e reca talvolta la marca di Savona (cfr. ad esempio l'esemplare nel museo Manlio Trucco, inv. 19662/68, in A. Cameirana, Ceramica in banca, catalogo di mostra, Albisola Superiore, 21 maggio-27 agosto 1989, p. 43 n. 21).  Tuttavia l'ornato "a peducci" e i fiori appartengono piuttosto al repertorio settecentesco, ed è probabile che questo tipo di oggetto sia stato prodotto a lungo, anche oltre il secolo XVII ("peducci" simili si trovano attorno ad un piatto stemmato venduto presso Sotheby's, Milano, mercoledì 11 giugno 1997, lotto76, marcato con la Lanterna, probabile riferimento ai Chiodo e ai Peirano di Savona, e su un candeliere del museo Manlio Trucco, inv. 19680/86, in A.Cameirana, op.cit. p.56 n. 42, siglato da Giuseppe Boselli, e quindi della seconda metà del Settecento; per i fiori, cfr. il piatto reale, ibidem p. 55 n. 38, inv.47667/40).  Lo stemma sembra indicare una committenza monastica, e si ritrova, assai simile, su una bottiglia della collezione Pillitteri nel Museo Nazionale di Firenze, marcata con la lanterna, dove però sotto le braccia incrociate non compare il cuore infiammato (inv.  Maioliche 1987, in  Maioliche al Bargello. Donazione Pillitteri, a cura di A. Alinari e M. Spallanzani, Firenze 1997, n. 23 p. 67-69)

 

SCHEDA N.14

PIATTO  (Tav.XVI a)

MILANO, PASQUALE RUBATI, SECONDA META' SECOLO XVIII

MAIOLICA

D. cm. 23,5

Provenienza:  collezione Damiron

  

Il piatto ha ampio cavetto e tesa baccellata, con bordo sagomato.  Al centro è raffigurato uno stemma miniato sormontato da corona marchionale, con un drago rosso in campo d'argento, al capo imperiale.  Tutt'intorno allo stemma si dispongono  ghirlande fiorite; mazzetti di fiori sono "gettati" anche attorno al bordo e, simmetricamente disposti, alla parete.  L'ornato è parzialmente a "piccolo fuoco", e i colori sono il verde, il rosso, il rosa, l'oro, il nero.

Un altro piatto dello stesso servizio, esposto nella mostra "maioliche di Lodi, Milano e Pavia" (n. 355 del catalogo, Milano, edizioni Museo Poldi Pezzoli, 1964), reca sul retro la sigla "F.P.R.Mil.o", ovvero Fabbrica Pasquale Rubati Milano.  Possiamo dunque includere anche il piatto di Marcigny nella produzione del brillante artefice milanese, che nel 1756 si separò da Felice Clerici e impiantò una propria manifattura, specializzata in raffinatissimi oggetti quasi sempre a "piccolo fuoco", molto legati all'imitazione della porcellana coeva. Il museo possiede anche un esemplare di quella che è la produzione più nota di Rubati, con i fiori dai petali a rilievo "alla barbottina".  Lo stemma è assai simile a quello Borghese (d'azzurro al drago alato d'oro, al capo dello stesso caricato di un'aquila di nero, imbeccata, membrata e colorata d'oro); i colori tuttavia non corrispondono, e poichè i maiolicari dell'epoca dispongono di una vasta gamma cromatica e appaiono attenti alle esigenze della araldica, riteniamo possibile che si tratti di una diversa famiglia, magari lombarda.  

 

SCHEDA N.15

SALIERA  (Tav.XVI b)

ARIANO IRPINO, FINE SECOLO XVIII - INIZI XIX

MAIOLICA

H. cm. 19,7; base cm. 11,5 x 9,5

Provenienza:  collezione Damiron

 

La saliera è plasticamente modellata a forma di donna, in atto di sorreggere con entrambe le mani il grembiule, che costituisce in realtà la vaschetta destinata al sale.  I colori sono il blu, il verde, il giallo, il giallo ocra, e il bruno.  L'esecuzione è vivace e poco accurata, con un'intonazione popolaresca.  Si tratta probabilmente di produzione di Ariano Irpino, nota soprattutto a partire dalla fine del Settecento, dove sono frequenti gli oggetti plastici variamente sagomati a forma di donna, di sfingi o di sirene con funzione di fiasche, saliere etc, vivacemente colorate in simili tonalità  (v. G. Donatone, Antica maiolica popolare di Ariano Irpino, Napoli 1988, p.55, 56-57, 59).   

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