Li tre libri dell'arte del vasaio.

Presentato e tradotto da Carola Fiocco - Gabriella Gherardi.

Carola Fiocco - Gabriella Gherardi, Cipriano Piccolpasso, Li tre libri dell'arte del vasaio, La revue de la ceramique et du verre, 2007

 

 

 

 

 

 

PRESENTAZIONE

 


Può sorprendere che si sia deciso di trascrivere in italiano corrente un testo già originariamente italiano; e tuttavia non solo è utile, ma addirittura necessario. 

Databile attorno alla metà del XVI secolo, il trattato del Piccolpasso è scritto in una lingua ben diversa da quella attuale, e difficilmente comprensibile anche per chi parla italiano dalla nascita.

La naturale evoluzione del linguaggioincredibilmente accelerata in questi ultimi tempi, ha reso di fatto impossibile capire con immediatezza questo testo, sia per quanto riguarda il lessico, ormai largamente obsoleto, che i nessi sintattici, tali da rendere oscuro il significato di intere frasi; senza contare gli aspetti culturali, con allusioni, invocazioni e l'inserimento repentino di luoghi comuni letterari tipici dell' epoca.

Particolarmente difficile da capire è il linguaggio tecnico, che nel Piccolpasso è preponderante. L'interesse del trattato si incentra essenzialmente su questo aspetto.
Assieme a quello del Biringuccio, edito postumo nel 1540 e menzionato con parziale apprezzamento dallo stesso Piccolpasso, esso è l'unico a fornire un quadro completo e coevo della tecnologia ceramica rinascimentale. Ci spiega infatti punto per punto come nascono quei capolavori della maiolica dipinta che tanto affascinano per la perfezione tecnica e l'abilità dell'secuzione pittorica, e che sono spesso oggetto della brama di musei e collezionisti. Il Piccolpasso ha fatto egli stesso ceramica, ma soprattutto ha goduto della fiducia di tanti maestri che gli hanno raccontato i segreti dell'arte. La tecnologia da lui descritta è tratta direttamente dalla pratica quotidiana dei ceramisti di allora, ed è perfettamente affidabile. Costituisce quindi un'ottima base per rifare tal quali le antiche maioliche.

Certo per un ceramista moderno si tratta di metodi anacronistici e difficili. Ormai anche coloro che si definiscono con orgoglio artigiani, ed affermano di operare come si faceva una volta, comprano i colori e gli smalti già macinati, e le terre già depurate. Sono estremamente rari quelli che si prendono la briga diarlo personalmente. Tuttavia chi volesse ottenere un effetto veramente vicino a quello della maiolica cinquecentesca troverebbe ancora nel Piccolpasso una guida puntuale e perfettamente utilizzabile. Questa nostra trascrizione è soprattutto dedicata a loro, nella speranza di facilitare l'accesso a un testo di per sé difficile, talora ai limiti dell'incomunicabilità.


Ma il trattato del Piccolpasso è di un' enorme utilità anche per gli studiosi di storia della ceramica, i cosiddetti ceramologi. Fornisce loro gli strumenti per comprendere quale fosse la prassi esecutiva degli oggetti da loro studiati, come si ottenessero certi ammirevoli effetti, e soprattutto in che modo la tecnica abbia condizionato le scelte stilistiche ed estetiche di autori e committenti.

Come per tutte le arti, anche per la maiolica italiana il Cinquecento è stato un secolo di gloria, ricco di artefici, di opere e di qualità. Il Rinascimento vi esercitò il suo influsso, rinnovando il repertorio decorativo e promuovendo l'Istoriato, pittura di storie e personaggi che rispecchiava, anche sul vasellame, la cultura umanistica. Divinità pagane, miti ed eroi classici si affollarono dunque su piatti, brocche e bacili, rendendo i servizi simili a libri illustrati. E se Eleonora, duchessa di Urbino, sembrava convinta che un servizio istoriato fosse adatto a una residenza di campagna 1, vi è tuttavia notizia che alla mensa di Clemente VII i cardinali mangiavano in piatti istoriati, degni dunque della corte papale 2. A questa tecnica il Piccolpasso dedica una particolare attenzione: riguardo ai pennelli, fatti con pelo di criniera d'asino o di capra, cui si mescolano peli o baffi di topi; riguardo alle misture per delineare e chiaroscurare, per simulare l'alba, i cadaveri, i sassi, il mare, i particolari delle persone ete. Alla fine di tutto, egli annota, si ritocca e si colora l'orlo di giallo chiaro. All' epoca del Piccolpasso, il Ducato di Urbino era all'apice della fama per la produzione di servizi istoriati. Alcuni fra i maestri p famosi erano ormai scomparsi. Nicola da Urbino già nel 1538 risulta defunto, mentre dell'Avelli si perdono le tracce dopo il 1542. Restavano però in piena attività due grandi imprenditori della maiolica, Guido di Merlino e Guido Durantino o Fontana, cui si affiancavano i membri della famiglia Patanazzi, con i Fontana variamente imparentati. Attorno a loro si muoveva una galassia di botteghe e di artefici i cui nomi emergono dai documenti notarili per atti di compravendita o testimonianze a contratti, ma la cui produzione è impossibile individuare. Guido Fontana e il figlio Orazio ebbero fra i loro committenti lo stesso duca di Urbino, in onore del quale era stata elaborata dai vasai urbinati una specifica decorazione, detta "a cerquate", costituita da rami di quercia intrecciati che riecheggiavano l'araldica roveresca. 

 


Quando il Piccolpasso scriveva stava invece cadendo in disuso un ornato ben più famoso, la grottesca. Derivata dall'antico, caratterizzata da grandi figure mostruose artorte in volute fra fiori e fogliame su un fondo blu intenso o arancio, aveva dominato nella prima metà del secolo, ma poi era stata quasi abbandonata. Il Piccolpasso lo annota con rammarico, sembrandogli una pittura "delicata", cioè raffinata e gradevole. Tuttavia proprio nel ducato di Urbino, verso il 1560, la grottesca rinasce a nuova vita, assumendo una veste diversa da quella disegnata dal Piccolpasso. Figure piccole, agili, di satiri, uccelli, sirene, draghi e pesci mostruosi si inseguono fra tralci su un fondo bianchissimo, riecheggiando gli ornati delle logge vaticane dipinti dalla scuola di Raffaello, portati nel Ducato dai pittori dell' Imperiale; e utilizzati per la prima volta come contorni decorativi ai disegni creati dagli Zuccari per il Servizio Spagnolo. Queste nuove grottesche incorniciano gli istoriati o si distendono per l'intera superfice maiolicata, producendo un effetto fresco e diverso, in sintonia con il nuovo gusto del bianco che si sta affermando a Faenza. Qui verso la metà del secolo si diffonde la moda dello smalto di fondo bianchissimo e denso, particolarmente ricco di stagno, sul quale i maiolicari dipingevano velocemente, quasi a schizzo. Essi preferivano in genere non ricoprire completamente quello smalto così bello, che costituiva di per se stesso una attrazione. Spesso quindi lirnitavano l'ornato, tracciando al centro una figuretta o uno stemma e circondandolo con una ghirlanda stilizzata, mentre le forme mosse degli oggetti valorizzavano la particolare pastosità del bianco.

Il Piccolpasso dedica molta attenzione a questa svolta della ceramica faentina: ne descrive accuratamente la tecnica, ne contesta la denominazione comune, convinto com'è che la gloria dell'invenzione spettasse al duca di Ferrara. E' comunque indubbio che le realizzazioni dei maiolicari di Faenza conquistarono non solo
l Italia ma anche numerose nazioni europee. Si radicò addirittura l'abitudine di usare il nome della città per indicare il prodotto.

Nel trattato, oltre al bianco di Faenza, trova spazio la specificità tecnica di altri centri, specie per quel che riguarda la composizione dei colori: essi sono « alla veneziana », « alla castellana », urbinati, durantini, etc.
Si rimarcano anche i diversi modi di raccogliere la terra, di macinare, e i tipi dei mulini e dei forni. Di

 

particolare interesse sono le pagine dedicate al lustro, di cui non mancano la composizione e la particolare tecnica di cottura, mediante un forno apposito di cui è disegnata accuratamente la struttura. La fonte del Piccolpasso è un artefice di grande esperienza, addirittura Vincenzo Andreoli, figlio del grande Mastro
Giorgio. C'è da pensare dunque che illustro non fosse più all'epoca un segreto, e che la sua buona riuscita (addirittura tre pezzi soltanto ogni cento risultavano perfetti) dipendesse soprattutto dall' abilità dell' artefice nel tenere sotto controllo le diverse fasi dell' opera, e non dalla semplice conoscenza delle procedure.

Pubblicato soltanto nel 1857, a dispetto delle speranze e aspettative dell'autore, che vedeva in questa sua opera una chiave per accedere al mondo delle corti e introdurvi un'arte che ne sarebbe stata nobilitata, il trattato è stato letteralmente idolatrato dai ceramologi delle generazioni precedenti: il Passeri, l'Argnani, il Ballardini, il Rackham, il Liverani ne hanno spesso tratto la loro terminologia. Termini come coperta, rabesche e bianco allattato, frequenti nella storiografia ceramica, si giustificano soltanto con la volontà di citare la terminologia rinascimentale per il tramite del Piccolpasso. Un'eccezione è data dalla parola maiolica, sostituita con il moderno lustro per non creare confusioni, visto il significato diverso che maiolica ha assunto già in epoca immediatamente successiva a quella del Piccolpasso. Su aspetti più sostanziali, soltanto a proposito del bianco ferrarese, malamente detto di Faenza, i ceramologi delle passate generazioni hanno dato decisamente torto alla fonte, preferendo sottolineare il ruolo di Faenza nell'invenzione e nello sviluppo dei famosi Bianchi. E tuttavia la questione non cessa di essere interessante: se il Piccolpasso poteva affermare con tale decisione la paternità del duca di Ferrara nell'invenzione di questo bianco di qualità eccezionale, che richiedeva anche particolari accorgimenti nella cottura e nel tipo di caselle entro cui rinchiudere gli oggetti, è necessario dargli credito. A maggior ragione sapendo che il duca era noto per il suo gusto nello sperimentare, e soprattutto per i suoi tentativi di ottenere la porcellana. Niente di più facile che nel corso dei suoi esperimenti avesse trovato un tipo di smalto nuovo ed eccezionalmente bello, poi sviluppato e applicato nella pratica su vasta scala dalle grandi botteghe dei vasai

 


faentini. Naturalmente il Piccolpasso, uomo del suo tempo, era abbondantemente coinvolto nell'adulazione dei potenti, specialmente di quelli da cui si aspettava vantaggi. Da qui le lodi iperboliche rivolte ad duca di Urbino e la dedica al cardinale di Tournon. Altrettanto indubbio è che egli non è esente da omissioni che appaiono del tutto incomprensibili; la più evidente riguarda la produzione derutese, ignorata non solo nel trattato, ma addirittura nell' opera del Piccolpasso sulle città e i castelli dell'Umbria, di cui Deruta faceva parte.
E tuttavia l'insistenza nel ribadire che il Bianco era di Ferrara e non di Faenza sembra indicare quanto meno l'esistenza di una polemica, in atto nel momento in cui scnveva.

E' importante infine il fatto che il Piccolpasso giustifichi il suo trattato non solo come strumento per i ceramisti, ma anche come premessa per un passaggio a un livello più alto di questa tecnica che, uscendo per suo tramite dalla pratica delle botteghe, avrebbe così potuto essere accettata anche nelle corti, dove erano frequenti le sperimentazioni di tipo alchemico. Inserendosi nel filone dell'alchimia la ceramica avrebbe potuto migliorare, con la scoperta di tecnologie nuove e l'assunzione di un nuovo status, molto più elevato.

Assieme a lei avrebbe potuto elevarsi l'autore del trattato, cui non si sarebbe più potuto rimproverare l' essersi occupato della manipolazione di terre. E' indicativo il fatto che egli sembri scusarsi con frequenza di trattare di terra e materiali umili. Anche l'inserimento di passaggi sul suo amore per Dio e per la donna amata, per la nostra sensibilità davvero bruschi e inopinati, dal
suo punto di
vista sono però un indispensabile viatico per innalzarsi, e inserirsi in filoni letterari propri della letteratura di corte.

Tutto ciò corrisponde in fondo, anche se un po' tardivamente, agli ideali e alle aspirazioni dei grandi ceramisti urbinati della prima metà del cinquecento: a Nicola, il quale affronta temi letterariamente difficili per committenti di cultura raffinata, traducendoli in un linguaggio figurativo attualissimo, derivato dal raffaellismo imperante. All'Avelli, che affronta nelle sue maioliche politica, letteratura e mitologia, aspirando a una familiarità con lo stesso duca di Urbino. Ecco dunque un'arte, quella della maiolica, che vorrebbe uscire dai suoi confini; e in parte ci riesce, se persino il Vasari loda i maestri urbinati ed equipara la loro abilità a quella dei pittori.

 

A questo proposito, vale la pena di soffermarsi sulla differenza che il Piccolpasso rileva fra i pittori di maioliche e quelli di affreschi, e cioè che i primi stanno seduti mentre dipingono, mentre i secondi stanno in piedi. A suo avviso questo, e non altro, è ciò che separle due categorie. Viene il sospetto che siamo noi, a distanza di secoli, ad operare distinzioni troppo nette, mantenendo nei confronti della ceramica un atteggiamento autoreferenziale, e separando i pittori di mai oliche da quelli di genere più alto. In realtà i documenti ci dicono che alcuni pittori della metà del '500 collaborarono attivamente alla produzione di istoriati. Basti per tutti l'esempio di Forlì, in cui Leocadio Solombrino è ricordato nei documenti locali soltanto come pittore di affreschi e di ancone, benché ci siano pervenute alcune sue importanti maioliche firmate.

Le aspirazioni del Piccolpasso furono crudelmente frustrate. Come è accaduto a molti, la sua gloria è postuma, e oltre a tutto molto maggiore presso gli studiosi che presso coloro che fanno ceramica. Fornendo una versione in italiano moderno del suo trattato, speriamo di immediata lettura e comprensione, ci auguriamo di favorire la realizzazione di almeno una delle intenzioni dell'autore, che esso diventi uno strumento valido per chi voglia conoscere l'arte come era un tempo, e magari sperimentarla per fini sempre più alti.

Rendiamo inoltre più accessibile al lettore attuale un altro tassello per comprendere la cultura e la ceramica dell' epoca.

 

1 Palvarini Gobio Casali Maria Rosa, La ceramica di Mantova, Ferrara 1987 pp. 180·2 e nota 29 p. 211

2 Spallanzani Marco, Ceramiche alla Corte dei Medici nel Cinquecento, Modena 1994 p. 129

 


AVVERTENZA AL LETTORE

 

Abbiamo lasciato le unità di misura cosi come le indica il Piccolpasso perché, prima dell'introduzione del sistema metrico decimale, esse variavano a seconda della località e del periodo; non è quindi possibile dame l'equivalenza esatta in termini assoluti. Per una trattazione esauriente sull'argomento rimandiamo al Manuale di metrologia di Angelo Martini, Torino 1889.

Non si tratta di una trascrizione letterale, come quelle già realizzate (è da menzionare in particolare quella di Giovanni Conti, puntuale e corredata da note esaurienti), bensì di un tentativo di rendere i contenuti in un linguaggio moderno e comprensibile anche ai giorni nostri. L'evoluzione della lingua, sia parlata che scritta, ha reso difficile capire il testo del Piccolpasso anche per chi è di madre lingua italiana, poiché l'autore, nel modo di esprimersi e nelle scelte lessicali e sintattiche, rispecchia com' è ovvio i modi della sua epoca. Era dunque necessario non limitarsi a trascrivere, ma addirittura tradurre il testo in una lingua che, ormai drasticamente cambiata, è ben lontana da quella rinascimentale. In questo modo il trattato
può recuperare la
sua funzione e costituire una guida preziosa per ceramisti e storici della ceramica.


* La presenza degli asterischi indica che in quel punto, nel testo originale, vi è una figura. Sono stati inoltre conservati i numeri delle sezioni, affinchè il lettore possa orientarsi meglio fra il testo originale e la trascrizione.

 

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