L'allegoria della Poesia vittoriosa sul tempo e sull'oblìo in un piatto del Frate nel Museo delle ceramiche di Deruta.

Carola Fiocco - Gabriella Gherardi, in "Notizie da Palazzo Albani 32", 2003, pp.85-88. 

 

L'Orlando Furioso è stato spesso una fonte d'ispirazione per il Frate da Deruta, soprannome del maestro maiolicaro Giacomo Mancini. Attivo sicuramente dagli inizi degli anni quaranta fino ai primi anni ottanta del Cinquecento 1, egli fu fra i pochi, nella cittadina umbra, a cimentarsi con un genere difficile come l'istoriato. Dipinge infatti sulle sue maioliche storie di ogni genere, servendosi di incisioni di maestri illustri, ma più spesso di illustrazioni di libri. L'edizione veneziana del poema ariostesco prodotta nel 1542 da Gabriele Giolito de Ferrari, ad esempio, ha fornito al Frate il materiale per decorare una cospicua serie di oggetti, sia a lustro che in sola policromia a gran fuoco: ne fanno parte il vassoio da acquereccia del Vietoria and Albert Museum di Londra col combattimento fra Atlante e Bradamante 2, il frammento del Museo delle Ceramiche di Faenza con la lotta fra Bradamante e Marfisa 3, la coppa del Musée des beaux arts et de la dentelle di Calais con Rodomonte che rapisce Isabella 4, tutti datati 1545; privi di data sono invece il piatto del museo N arodowe di Cracovia, con la morte di Zerbino 5  e quello della Wallace Collection di Londra con Ruggero che getta lo scudo magico di Atlante nel pozzo 6, anch' essi tratti dalle illustrazioni dello

stesso volume, e presumibilmente eseguiti in un periodo di tempo abbastanza vicino, viste le affinità stilistiche con le altre opere citate. A nemmeno tre anni dall'uscita il Frate si trovava evidentemente a disporre dell' edizione del Giolito, di cui riproduce mediante spolveri alcune delle scene che illustrano i capoversi, mentre sul retro degli oggetti appone iscrizioni che ne spiegano il significato, servendosi dei capoversi stessi.
Vi
è però un piatto che, pur decorato con un episodio tratto dall'Orlando Furioso, non deriva dall'edizione del Giolito. Si trova nelle collezioni del Museo delle ceramiche di Deruta (fig. 1), e la sua iconografia è rimasta finora senza


l La prima opera del Mancini firmata e datata è un piatto della collezione Pourtales con un episodio delle Metamorfosi di Ovidio (1541), la cui attuale collocazione non è nota, ma che è citato in tutti i più vecchi elenchi (v. ad es. C.D.E. FORTNUM, Maiolica, 1896p. 232). La collezione Pourtales fu messa in vendita nel 1865 e, benché il piatto non figurasse nel catalogo di vendita, è probabile che proprio in quell'occasione sia andato disperso. Nel 1581 i figli del Mancini si divisero i suoi beni, e quindi egli risulta appena morto (NICOLINI UGOLINO, La Madonna dei Bagni: il culto e la documentazione, in Gli ex-voto della chiesa della Madonna dei Bagni dDeruta, a cura di G. Guaitini, Firenze 1983 p. 43, nota 5).

2 Inv. C2198.

3 Inv. 15611.

4 Inv. 951-461.
5 Inv. III.187.

 6 Inv. III B 86.

 


spiegazione. Il retro è del tutto privo di iscrizioni, e la complessità della scena è tale che, per essere compresa, è necessario conoscerne la fonte, per lo meno quella poetica, costituita dai versi 87-99 del canto 34 e da quelli iniziali del canto 35. Con la guida dei versi non è difficile dipanare la vicenda, che riguarda l'eroe Astolfo. Eccolo a destra, in armatura classica, mentre dialoga concitatamente con un santo dalla lunga barba bianca e dalla capigliatura rosso cupo. È l'Evangelista Giovanni, che Astolfo ha incontrato nel Paradiso terrestre, e che lo ha condotto fino al cielo della Luna, dove il paladino ha potuto recuperare il senno di Orlando. Successivamente il santo lo ha guidato a un palazzo, accanto al quale scorre un fiume. Le figure di Astolfo e dell'Evangelista si ripetono tre volte, in atteggiamento diverso, come se stessero visivamente avanzando dal secondo al primo piano, dirigendosi poi verso sinistra, dove osservano tre donne intente a filare. Sono le Parche, o Moire, e quella che filano è la vita degli uomini: secondo la leggenda, 

Cloto tiene la conocchia, Lachesis fila lo stame, Atropos recide il filo. Ogni stanza del palazzo è piena di velli di ogni colore - lino, seta, cotone, lana- così che non manca mai la materia prima. Narra l'Ariosto che una delle Parche porta via il prodotto finito, e separa
il bello dal brutto. Fra i filati, uno appare ad Astolfo eccezionalmente bello, ed è quello del suo cardinale, Ippolito d'Este, che viene così debitamente omaggiato. I nomi di coloro la cui vita è riuscita alla filatrice particolarmente bene vengono impressi su piccole piastre di diverso materiale - ferro, argento, oro - che sono ammucchiate in grembo a un vecchio, il Tempo.
Possiamo
vederlo sul lato sinistro del piatto, snello e svelto malgrado l'età, intento a gettare le piastre con i nomi nel fiume che scorre accanto al palazzo. Il fiume si chiama Lete; la maggior parte delle piastre va a fondo, e i nomi che vi sono impressi vengono così dimenticati. Se ne salva all'incirca una ogni centomila. Cornacchie, avvoltoi ed altri uccelli si precipitano e prendono col becco o con le unghie le piastre che non sono affondate, ma non riescono a portarle lontano; esse ricadono tristemente nel Lete. Soltanto due cigni bianchi riescono, malgrado le cattive intenzioni del Tempo, a salvare pochi nomi prendendoli nel becco. I cigni rappresentano i poeti, che soli possono tramandare la memoria degli eroi. Essi nuotano risalendo il fiume fino a un colle che sorge nei pressi della riva, sopra il quale è un tempio. Il luogo è sacro all'Immortalità. Una bella ninfa - la Fama - scende dal colle e toglie di bocca ai cigni le piastre con i nomi salvati, affiggendole poi attorno alla statua dell'Immortalità, che si erge su una colonna al centro del tempio. Possiamo

vedere la ninfa in alto a sinistra, inginocchiata ai piedi del simulacro della dea. li significato della scena viene spiegato ad Astolfo da Giovanni, che conclude il suo discorso con l'elogio della poesia, la sola in grado di salvare dal Lete la fama degli uomini.

Elenca poi tutta una serie di esempi illustri che dimostrano tale assunto.

Per riprodurre questa scena, complicata nel significato e di conseguenza nell'iconografia, il Frate ha avuto bisogno di una fonte grafica cui appoggiarsi, e questa volta si è servito di un'altra edizione veneziana del poema ariosteo, quella di Vincenzo Valgrisi del 1556 (fig.2). li titolo completo è "ORLANDO FVRIOSO./DI M.LODOVICO ARIOSTO, / TVTTO RICORRETTO,/ET DI NVOVE FIGVRE/ ADORNATO./ Al quale di nuovo sono aggiunte/Le Annotazioni, gli Auuertimenti, et le Dichiarationi di Girolamo Ruscelli, /La Vita dell' Autore, descritta dal Signor Giouambattista Pigna,/ Gli Scontri de' luoghi mutati dall' Autore doppo la sua prima impressione, / La Dichiaratione di tutte le fauole, / li Vocabolario di tutte le parole oscure, / Et altre cose utili et necessarie. / CON PRIVILEGIO/ /IN VENETIA, / Appresso Vicenzo Valgrisi, nella bottega d'Erasmo. / MDLVI.” È una edizione in-4 (sarà seguita da un' altra, in-8, nel medesimo anno), illustrata da bellissimi intagli in legno a piena pagina, riccamente incorniciati, che tradizionalmente vengono attribuiti al Dossi, e che furono usati per la prima volta in questa occasione. 7 Quello da cui deriva il piatto si trova alla pagina 392, all'inizio del canto 35. Si capisce dunque l'importanza del riconoscimento di questa fonte, perché l'edizione valgrisiana fornisce una data post-quem al piatto del museo di Deruta, che ne è privo. Se la serie precedente ispirata all'Orlando Furioso è stata eseguita nel 1545, e rappresenta quindi una momento giovanile nella carriera del Frate, con il piatto di Deruta siamo in una fase più avanzata, testimoniata anche dall' evoluzione dello stile. Pur inconfondibile, esso denota un cambiamento verso un'esecuzione disinvolta, ricca di colore e di brio. È evidente l'evoluzione verso uno stile più maturodi transizione fra le

 

7 AGNELLI GIUSEPPE - RAVEGNANI GIUSEPPE, Annali delle edizioni 

ariostee, vol. I, Zanichelli, Bologna 1933, pp. 98-100.



opere precedenti e quelli più tarde già quasi compendiarie, come il grande piatto con il Parnaso del museo Alexis Forel di Morges, datato 1564 8. Rispetto alla produzione giovanile, è interessante notare nel piatto del Museo di Deruta un mutamento nell'uso dei colori, altrettanto forti ma caratterizzati da un cangiante giallo-arancio-verde che si trova anche in alcune figure del piatto dell'Alexis Forel. Collocheremmo dunque l'opera, che risente di apporti di bottega, verso il 1560.

Non conosciamo altre opere del Frate tratte da illustrazioni dell'edizione valgrisiana. Forse questo articolo contribuirà a portarne alla luce qualcuna. Parrebbe però che l'utilizzo di questa nuova serie di legni non abbia sortito grande esito. Sorprende inoltre che non vi siano scritte esplicative sul retro del piatto, e nemmeno i nomi dei personaggi accanto alle figure, come avviene invece nella stampa. L'eccezionalità dell' opera fa pensare a una precisa commissione, forse da parte di qualcuno che ha fornito all' esecutore la copia del libro, ed ha richiesto specificamente quella immagine; era forse un letterato o un poeta, che voleva esaltare la potenza della poesia e la sua capacità di immortalare gli uomini meritevoli.

 

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