La grottesca faentina agli inizi del '500 (Siena o Faenza? A proposito di due piatti della collezione Gillet)

Carola Fiocco - Gherardi Gabriella, in  Italienische Fayencen der Renaissance. Ihre Spuren in internationalen Museumssammlungen, atti del convegno di Norimberga, dicembre 2000, a cura di Silvia Glaser, edizioni Germanischen Nationalmuseums, Nurnberg 2004,   pp.199-214

Nella collezione Gillet, del Musée des Arts Decoratifs di Lione, due splendidi piattelli ci hanno costretto ad affrontare un vecchio problema, quello della grottesca su fondo arancione degli inizi del '500, che sembra essere stata eseguita in modo assai simile a Faenza e a Siena. Eccoci dunque a parafrasare il titolo di un famoso articolo del Falke, che riguardava la confusione fra le tipologie senesi e derutesi di quello stesso periodo, e a domandarci, di fronte ai due piattelli decorati in questo modo, se si tratti di produzione di Siena o Faenza. Nessuna pretesa, naturalmente, di esaurire la questione, ma soltanto uno scopo difensivo: giustificare il fatto che, nella catalogazione della collezione Gillet  abbiamo attribuito a Faenza i due piattelli in questione, che lo stesso Damiron, autore della prima catalogazione Gillet, riteneva senesi; opinione, temiamo, condivisa da molti dei presenti. Il primo piattello (fig. 1,2) ha la forma col cavetto molto pronunciato, un diametro di 27 centimetri, e proviene dalla collezione Pringsheim, come molti altri esemplari della Gillet. Esso reca ai centro un profilo di donna magnificamente eseguito, su fondo blu, entro una cornice di ovoli e dardi tipica della decorazione rinascimentale. Segue una fascia a soprabianchi e, attorno alla tesa, una grottesca formata da sfingi e mascheroni, entrambi alati, intercalati a racemi e infiorescenze circolari. Sul retro, il motivo che i faentini chiamano a calza, costituito da una serie di filetti concentrici blu e arancio di diverso spessore. II colore è intenso, il giallo che fa da fondo alla grottesca è di un tono ocra, le figure sono eseguite in bianco e blu.

II secondo piatto (fig. 3) proviene dalla collezione Mannheim; passò poi in quella del Damiron, e quindi a Paul Gillet, che la donò nel 1960 al museo. Ha una forma diversa dal precedente, il cavetto è più steso, e ha un diametro di 24 centimetri. Vi è dipinto al centro un putto in piedi su un oggetto che è difficile identificare, forse un cuore o una pietra, con un cartiglio privo di scritta, sullo sfondo di un paesaggio alberato. È anch'egli circondato da una cornice di motivi rinascimentali, mentre sul bordo si stende la grottesca su fondo arancione, costituita da testine alate entro cornucopie, e sfingi alate che si bilanciano sulle gambe ripiegate. Anche qui l'ornato è eseguito in bianco profilato e sfumato di blu; il fondo arancio è più brillante del precedente, mentre il retro è completamente bianco.

 

Esaminando i due oggetti, balza agli occhi il legame che entrambi hanno con la documentazione di scavo emersa dal sottosuolo faentino. E' conservata nel museo di Faenza, ma anche presso collezioni private, una quantità impressionante di frammenti a grottesche su fondo arancione - ocraceo, con figure stilizzate in maniera estremamente simile (fig.4, 5, 6, 7, 8). Anche dal punto di vista tecnico l'impasto chiaro, lo smalto opaco e coprente, la qualità accurata dell'esecuzione, il rapporto del blu con l'arancio del fondo e la maniera sfumata con cui è tracciato il disegno ricorrono comunemente nei manufatti faentini.

Eppure, come abbiamo visto, il Damiron riteneva entrambi i piattelli senesi, seguito in questo dalla Giacomotti, che li illustrò in un esauriente saggio pubblicato nel 1962 sui Cahiers de la Céramique[1]. Per una attribuzione faentina, sotto però l'influenza senese, bisogna risalire al Falke e alla sua catalogazione della Pringsheim nei 1914, dove viene preso in considerazione il primo piatto[2]. Quanto al secondo il Molinier, nei suo studio sulla Mannheim del 1898, lo considera toscano, ma lo riconduce a Cafaggiolo[3].

Non comprendiamo bene le basi per quest'ultima attribuzione, e preferiamo metterla da parte. Tutt'altro discorso, invece, per quel che riguarda l'attribuzione senese. Qui si entra  in una delle questioni più interessanti, e ancora sostanzialmente irrisolte, della storia della ceramica. La fama di Siena si è imposta prestissimo proprio per un tipo di produzione simile, di cui i fondi ocracei costituiscono un elemento caratterizzante, ed è subito apparso chiaro che la città disponeva di una tradizione autonoma di altissimo livello, dal verde - bruno tardo - medievale alla fase tardo - quattrocentesca fra gotico e rinascimento, e a quella del secolo successivo, pienamente rinascimentale. 



[1] Jeanne Giacomotti: Les majoliques de la Collection Paul Gillet au Musée lyonnais des arts décoratifs. Cahiers de la céramique du verre et des arts du feu, 1962, n. 25, p. 32.

[2] Otto von Falke: Die Majolikasammlung Alfred Pringsheim in München. 2 vol. Leiden 1914, vol. II, n. 168.

[3] Emile Molinier: Collection Charles Mannheim. Objects d´art. Paris 1898, n. 40.  

 

Già verso la metà del secolo XV sono attivi a Siena i Mazzaburroni, nella cui bottega furono eseguiti i pavimenti Docci in San Francesco (1475 circa)[1] e Bichi in Sant'Agostino (1488)[2] (fig. 9). In queste date notiamo che i maiolicari senesi mostrano di possedere una tecnica sapiente e una capacitä decorativa di alto livello; notiamo anche che l'ornato è ancora nei complesso legato al gotico tardo, consistendo essenzialmente in un ricco, sinuoso fogliame,  che circonda stemmi ed emblemi.

Prestissimo però, con gli inizi del nuovo secolo e con l'abbandono graduale del repertorio gotico a favore di quello rinascimentale, ecco l'ingresso della grottesca[3]. La troviamo nei pavimento dell' Oratorio di Santa Caterina in Fontebranda (fig. 10) il cui primo nucleo reca la data 1504[4]. La troviamo anche in una serie di albarelli il cui ornato si stende a fascia attorno al corpo, circondando il cartiglio col nome del medicamento. L'esemplare recante la data più antica, 1500[5], mostra già, nel tipo di vegetazione, un gusto decisamente rinascimentale, mentre quello subito successivo, datato 1501[6], si arricchisce del mascherone, e può già dirsi compiutamente decorato a grottesche. Negli albarelli successivi, di qualche anno più tardi, il motivo si arricchisce e si precisa, con grottesche minute su fondo arancione, blu scuro o nero, entro le quali spiccano bucrani, testine angeliche, cornucopie, perle, girali e delfini: scegliamo di presentarvi alcuni esemplari della collezione Gillet, molto rappresentativi e pochissimo conosciuti (fig. 11,12).



[1] Mario Luccarelli: Contributo alla  conoscenza della maiolica senese. Il pavimento della Cappella Docci nella basilica di San Francesco in  Siena. In: Faenza LXX,1984, 5-6, p. 391-397. 

[2] Mario Luccarelli: Contributo alla  conoscenza della maiolica senese. Il pavimento della Cappella Bichi in Sant´Agostino. In: Faenza LXIX, 1983, 3-4, p. 197-201.

[3] Per notizie sulla maiolica senese vede Gaetano Guasti: Di Cafaggiolo e d´altre fabbriche di ceramica di Toscana. Firenze 1902, p. 333. – Douglas Robert Langton: Le maioliche di Siena. Estratta da Bollettino senese si storia patria, a. X, 1903, fasc. I, p. 1-23.

[4] Mario Luccarelli: Contributo alla conoscenza della maiolica senese. Il pavimento dell´oratorio di Santa Caterina. In: Faenza LXXXII, 1996, 4-6, p 122-144.

[5] Musée de la Renaissance, Chateau d´Ecouen, Inv. Cluny 2238 e 3805, in: Jeanne Giacomotti: Catalogue des majoliques des musées nationaux. Paris 1974, n. 402.

[6] Londra, Victoria and Albert Museum, in: Bernard Rackham: Victoria and Albert Museum: Catalogue of Italian Maiolica. London 1940, 2 vol.,  n. 364.

 

Le date in cui compare la grottesca nella maiolica senese, sui primi albarelli e sul pavimento di Santa Caterina, sono estremamente precoci, specie se rapportate alle arti applicate. Benché elementi di grottesca fossero utilizzati dal Mantegna fin dalla metà del secolo XV, nel clima antiquario tipico dell' ambiente padovano[1], non fu prima della metà degli anni Ottanta che si sviluppò la moda a Roma, con l' Interesse per l'antico suscitato dalle recenti scoperte archeologiche. Protagonista fu, come è noto, Bernardino di Betto soprannominato il Pinturicchio, i cui affreschi nella cappella Bufalini all' Aracoeli, eseguiti verso il 1485, diedero il via alla rielaborazione rinascimentale degli ornati a grottesche neroniani. Pochi anni dopo, fra il 1492 e il '94, il cantiere degli Appartamenti Borgia, cui parteciparono le maestranze più disparate, costituì per essi un vero focolaio di diffusione.

Sorprendente quindi appare a Siena la presenza di grottesche perfettamente connotate subito agli inizi del secolo, ma comprensibile se messa in relazione con un clima artistico eccezionalmente fervido dovuto anche alla presenza, dal 1502, del Pinturicchio in persona, reduce dai successi romani. Le grottesche della maiolica senese infatti hanno spesso indubbie parentele con quelle da lui dipinte nella libreria Piccolomini nel Duomo (fig. 13), e in particolar modo troviamo questa relazione sulle mattonelle pavimentali per il Palazzo Petrucci, recante le date 1509 e 1513 (fig. 14).

A grottesche minute su fondo blu, molto simili a quelle sul pavimento Petrucci, è inoltre decorata la tesa di un famoso piatto della cui origine senese non è lecito dubitare, quello con Pan fra i pastori del British Museum di Londra, su cui spiccano tre stemmi compreso quello del Magnifico Pandolfo, e la cui data non dovrebbe discostarsi molto da quella del pavimento (fig. 15).

Le grottesche senesi appaiono dunque, in alcuni casi, sotto l'influenza pinturicchiesca. Il più delle volte si presentano anche fastidiosamente simili a quelle sui reperti faentini, e da qui nasce il dilemma che coinvolge l'attribuzione dei due piattelli Gillet e dei numerosi altri tipologicamente simili, compreso il famoso gruppo di manufatti denominato IP, caratterizzato anch' esso da grottesche su fondo arancione estremamente simili a quelle faentine[2]. La sigla è scritta sul retro di una serie di piatti con immagini di santi: S. Lucia nel Courtauld Institute di Londra, San Bartolomeo nel British Museum, S. Giacomo maggiore e S. Maria Maddalena del Victoria and Albert Museum[3]. Su un piatto del British Museum di argomento dei tutto diverso, Muzio Scevola che si brucia la mano davanti a Porsenna, almeno parzialmente simile, è scritto invece FIO, facendo così ritenere che tali sigle alludano al proprietario e non all' autore.



[1] Vede per esempio il fregio sulla casa del giudice del Martirio di San Cristoforo Ovetari.

[2] Charles Drury Edward Fortnum: Descriptive Catalogue of the Maiolica... in the South Kensington Museum. London 1873, p. 134. Rackham (nota 9), n. 375, 376.

[3] Inv. 11-1867 e C. 2124-1910, in: Rackham (nota 9), n. 375, 376.

 

La tipologia ha generalmente goduto di un' attribuzione preferenziale a Siena, e non a Faenza, per tutta una serie di motivi che fanno capo da un lato all' eccellenza della cultura figurativa senese, dall'altro alla figura dei maestro maiolicaro Benedetto, e al già citato piatto con Pan e i Pastori.

Benedetto ha lasciato la sua firma su un unico piatto, quello con San Girolamo penitente del Victoria and Albert Museum di Londra, dipinto in monocromia azzurra su fondo bianco, e con un giro di fogliette alla porcellana tutt' attorno alla tesa, stilizzate in maniera particolare (fig. 16) . La ricerca di archivio ha stabilito che egli proveniva da Faenza, e si era stabilito a Siena a partire circa dal 1503[1]. Ecco dunque trovato il legame che giustificava la somiglianza fra gli ornati dei due centri. A lui e alla sua bottega veniva attribuita tutta la grande quantità di oggetti a grottesche arancioni, così vicini a quelli faentini,  racchiusa sotto la dizione di comodo “Maniera di M.° Benedetto”. Se si calcola che vi sono poi anche altri nominativi di vasai faentini residenti nella città toscana, un' interferenza ceramica fra i due centri è apparsa perfettamente comprensibile[2].



[1] Douglas Robert Langton: A note on Maestro Benedetto and his work. In: Burlington Magazine LXI, 1937, p. 89-90. – Mario Luccarelli: Contributo alla conoscenza della maiolica senese. La Maniera di M. Benedetto. In: Faenza LXX, 1984, p. 302-304.

[2] Anna Migliori Luccarelli: Documenti. Orciolai a Siena. In: Faenza LXIX, 1983, 3-4, p. 255-288 (parte I); 5-6, p. 368-400 (parte II).  

 

Al di là delle grottesche e dei motivi di contorno, anche lo stile delle raffigurazioni principali risulta compatibile con questa tesi. Il pittore dell' immagine di San Girolamo nel piatto di Maestro Benedetto era, secondo il Fortnum e il Rackham, lo stesso che aveva dipinto il gruppo IP. In questo modo veniva ulteriormente rafforzata l'attribuzione senese per il gruppo, sia pure sotto la tutela faentina. Il Wilson, nel giudicare probabile, anche se non inattaccabile, l'identità fra il pittore del gruppo IP con quello dei piatto col San Girolamo, ritiene poi che la stessa mano abbia dipinto il piatto Petrucci con Pan e pastori, riportando quindi anch' egli con forza il gruppo alle officine senesi[1]. Al di là dei frammenti faentini a grottesche, l'identità dei pittore che ha dipinto le figure centrali torna dunque a guidare l'attribuzione a Siena dei gruppo IP e della tipologia ad esso collegata, fra cui i piatti Gillet, nonché la sua data approssimativa, basata su quella del pavimento Petrucci.

Stilisticamente, questo pittore si inserisce assai bene nell' ambiente artistico senese dell' epoca, poiché, per le sue caratteristiche umbre, appare in sintonia con il Pinturicchio, il Signorelli o forse con Girolamo Genga, tutti artisti convocati a Siena dal Petrucci; potrebbe dunque essersi ispirato a qualche loro disegno[2].

Noi ci limiteremo a osservare che l'argomento stilistico non è probante, dal momento che vale sostanzialmente anche per Faenza, attraverso l'influenza che la pittura bolognese esercita all' epoca sulla maiolica faentina. Le caratteristiche umbre, che certamente riguardano la pittura senese degli inizi del secolo, si estendono infatti a gran parte della pittura bolognese dello stesso periodo: la morbidezza del segno, il tratteggio ricurvo con cui sono tracciati gli alberi, l'espressione melanconica e la tipologia dei visi, i capelli puntinati, i ciuffi di erba in primo piano sono infatti tipici di tutti i pittori provenienti dal cantiere borgiano, influenzati dal Pinturicchio, di cui alcuni provenivano da Bologna: Jacopo Ripanda, innanzitutto, i cui affreschi nel Palazzo dei Conservatori (fig. 17) evidenziano proprio quegli elementi che abbiamo visti, pur tradotti in una tecnica diversa, nel pittore del piatto Petrucci, e che caratterizzano la temperie senese degli inizi del '500. Né poteva essere diversamente, poiché Ripanda, proveniente da Orvieto, divenne uno die collaboratori del Pinturicchio. Accanto a lui, troviamo a Roma nello stesso periodo i due fratelli Aspertini, Guido e Amico, quest' ultimo anch' egli attivo presso il Pinturicchio, che pare ammirasse moltissimo (fig. 18).



[1] Timothy Wilson: Renaissance Ceramics. In: Rudolf Distelberger (Ed.): National Gallery of Art, Western Decorative Arts, vol. I, Washington and Cambridge 1993, p. 124.

[2] Timothy Wilson: Girolamo Genga.: Designer for maiolica?. In: Timothy Wilson (Ed.): Italian Renaissance Pottery. London 1991, p. 157-165. Dissente Mario Luccarelli il quale,ritenendo troppo impegnativo un confronto stilistico basato sull´unica figura dipinta certamente da M. Benedetto, ha riesaminato la questione prestando attenzione ai motivi della tesa, e non alla figura centrale. Preferisce così delimitare una ’maniera di Maestro Benedetto’  attenendosi a quel un particolare ornato alla porcellana che caratterizza il piatto firmato, e che emerge talvolta dagli scavi senesi (Luccarelli ( nota 13), p.302.  

 

Attraverso il loro influsso, che si esercitò soprattutto tramite i taccuini di disegni, come è stato altrove più volte esaminato, passarono anche nella maiolica faentina, oltre che in quella senese, i modi umbro - romani, originati dalla stessa fonte.

Tale influenza ci sembra possa avere origine dal cantiere Vaselli, dove nell' ultimo decennio del Quattrocento si trovarono ad operare insieme i maggiori pittori del momento, con un' azione figurativamente innovatrice, che finì per coinvolgere la decorazione del pavimento maiolicato. Qui sono ripresi talvolta ornati che ricorrono anche in altri luoghi della cappella (fig. 19,20) denotando una sintonia nelle scelte figurative che appare suggerita dall' alto agli artigiani. Né sapremmo spiegare in altro modo un fatto che ci ha sempre incuriosito, la presenza cioè, già nell' ultimo decennio del ‘400, del mascherone e di altri elementi da grottesca su una grande quantità di mattonelle (fig. 21). Tale estrema precocità di date, che fa concorrenza a quella senese, può soltanto derivare dal contatto con personalità artistiche estremamente aggiornate, che hanno condizionati i pittori maiolicari, rimodernando drasticamente il loro repertorio. Non si tratta tanto, probabilmente, del Costa o del Francia, autori dell' Annunciazione e degli Apostoli, ma soprattutto dell' autore della pala centrale col martirio di San Sebastiano (fig.22), che mostra una conoscenza ravvicinata dell' ambiente dei pittori borgiani, unita a un più arcaico influsso della pittura ferrarese.

Per questo motivo il Longhi faceva il nome del Ripanda[1], mentre più di recente il Ferretti preferisce proporre quello di Guido Aspertini[2], peraltro già in contatto con l'ambiente faentino avendo terminato, nel 1490, una pala per i Domenicani di Faenza[3]. Dopo questo episodio di contiguità nell' ambito dello stesso cantiere, in seguito, l'osmosi stilistica fra pittori e ceramisti avviene per lo più attraverso i soliti canali indiretti costituiti dai taccuini di disegni: nel caso dell' ambiente del Ripanda quelli di Lille e Oxford, quelli di Parma e Wolfegg nel caso di Amico Aspertini[4] (fig. 23, 24).



[1] Roberto Longhi: Officina ferrarese. Firenze 1975 ( I º ed. 1934, con ampliamenti 1940-55) p. 134, nota M92.

[2] Marco Feretti: In cerca di Guido Aspertini. In: Arte a Bologna, bollettino dei musei civici d´arte antica, 3, Bologna 1993, pp. 35-63.

[3] La pala è attualmente dispersa, per essa sussiste soltanto la documentazione di archivio.

[4] Marzia Faietti: Jacopo Ripanda, il suo collaboratore (il Maestro di Oxford)e il suo concittadino (il Maestro di Lille). In: Dal disegno all´opera compiutà atti del Convegno Internazionale Torgiano, ottobre–novembre 1987, a cura di Maria di Giampaolo, Perugia 1992, p.19-38. 

 

E' noto che i taccuini di disegni originali venivano di frequente copiati[1], per collezionismo o per aggiornamento stilistico e iconografico delle botteghe artigiane e dei pittori provinciali e minori, e questo spiega insieme la loro diffüsione, l'analogia stilistica che li riconduce a una determinata personalità e la discrepanza qualitativa che finisce col negarne l'autografia. Tale influsso perdura, a nostro avviso, fino verso la metà del secolo, coinvolgendo decoratori famosi come il Maestro della coppa Bergantini (fig. 25, 26, 27).



[1] Vincenzo Farinella: Archeologia e pittura a Roma tra Quattrocento e Cinquecento, Torino 1992, p. 164-165, dove viene un discusso famoso scambio epistolare, pubblicato per la prima volta da Clifford Brown, col quale un mercante fiorentino richiede in prestito a Ludovico Gonzaga un libro di disegni tratti da monumenti antichi, per poterlo fare copiare.

 

Tornando agli inizi del Cinquecento, si può dunque concludere che i maiolicari faentini si

trovarono a condividere un clima abbastanza simile a quello dei loro colleghi senesi. Se infatti il rinnovamento figurativo della maiolica senese appare subordinato all' asse pittorico Roma -Siena, ecco che ad esso se ne affianca uno Roma - Bologna - Faenza, che ha la stessa origine. Entrambi portano nella produzione di maiolica dei rispettivi centri un uso precoce della grottesca e la maniera umbra del dipingere. Se si aggiunge a tutto ciò il passaggio diretto di un certo numero di artefici da un centro all' altro, il risultato non può che essere ambivalente. Proprio per questo ci pare perfettamente accettabile un' attribuzione faentina, per quanto riguarda la tipologia a grottesche su fondo arancio cui appartengono i piattelli Gillet e i numerosi altri simili.

Esaminati i motivi della somiglianza, a questo punto ci domandiamo se c'è la possibilità di distinguere, se è possibile proporre un qualche criterio pratico di differenza, mettendo a raffronto diretto la maiolica senese e quella faentina.

Confrontiamo dunque frammenti e piattelli sicuramente senesi, come questi attualmente conservati presso l'ospedale della Scala (fig. 28,29,30), con questi altri di sicura provenienza da scavi faentini. Confrontiamo questo piatto della collezione Gillet, dalle caratteristiche e dall' araldica senese (fig. 30), con quest' altro in collezione privata che è invece sicuramente faentino,  (fig. 31, 32).

 

Lo stesso piatto lo accostiamo adesso a uno della collezione Chigi - Saracini (fig. 33), sul retro del quäle l'inconfondibile versione del petalo striato denota l'origine senese; per quanto ci riguarda, l'unico elemento che avvertiamo è una maggiore presenza del colore sul versante senese, col contrasto verde - giallo ocra, mentre le versioni faentine si presentano più austere nella loro bicromia blu - ocra. Troppo poco naturalmente, ma rimane sempre la speranza di ulteriori apporti da scavi futuri. Inoltre, dovrebbero potersi rilevare differenze anche da un punto di vista tecnico, ad esempio la maggior aderenza e fusione al corpo della ceramica dello smalto faentino, mentre quello senese ha più tendenza a scagliarsi. Sarebbero dunque molto utili ricerche ulteriori in questa direzione, come pure su impasti e materiali di base.

Vorremmo concludere sottolineando l'importanza di un filone di studio attualmente ancora poco percorso, quello che si propone di approfondire le relazioni fra pittori e maiolicari, a nostro avviso fondamentale per far uscire la storia della ceramica dall' atteggiamento autoreferenziale in cui ama per lo più rinchiudersi, ed inserirla finalmente in un contesto di più ampio respiro. Proponiamo dunque, come spunto di riflessione, la figura emblematica del faentino Maestro Gentile Fornarini, già studiata dal Ballardini e da Melisanda Lama[1]. Risulta infatti dai documenti che egli non è affatto un padrone di bottega ceramica, ma un "libero professionista", come oggi lo definiremmo, della decorazione su materiali più svariati. Definito insieme Maestro e Pittore, egli è bensì decoratore di maioliche presso molte botteghe faentine della seconda metà del '400, ma anche autore di immagini di santi per chiese e ville, di cassoni dipinti, di impannate, palii d'altare e coltrine, a dimostrazione che, come del resto risaputo, i pittori minori, provinciali, difficilmente si limitano a una sola tecnica, ma si esercitano in molte contemporaneamente, con tutte le problematiche connesse.



[1] Melisanda Lama: Il libro dei conti di un maiolicaro del Quattrocento. La vacchetta dei conti di Mº Gentile Fornarini. Faenza 1939, p. 13. 

 

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