L’ARALDICA DEI VESCOVI MASSUCCI E RAFFAELLI DELLA DIOCESI DI PENNE E ATRI  NELLA MAIOLICA DI CASTELLI D’ABRUZZO

Di Carola Fiocco e Gabriella Gherardi

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In araldica la committenza ecclesiastica è contrassegnata dalla presenza del galero, il cappello a larga falda che sormonta lo stemma, con ai lati due cordoni che terminano in una serie di nappe. Il livello gerarchico è determinato dal colore e dal numero delle nappe, che aumentano dall’alto verso il basso in formazione a triangolo: una nella prima fila, due nella seconda, tre nella terza e così via. Nel caso dei vescovi, il colore è il verde, e le nappe sono 6, distribuite 1,2,3. Sono dunque ben riconoscibili le maioliche di commissione vescovile. In particolare, i vescovi delle diocesi riunite di Penne e Atri furono sicuramente fra gli estimatori della maiolica di Castelli.  Per almeno due di loro infatti, Francesco Massucci ed Esuperanzio Raffaelli,  ci restano oggetti contrassegnati dallo stemma e dal galero verde, con il numero appropriato di nappe. E’ possibile che in origine facessero parte di  veri e propri servizi, anche se ormai è difficile stabilirlo. 

Francesco Massucci fu vescovo di Penne e Atri dal 18 maggio 1648 al 7 settembre 1656, quando morì a Recanati e fu sepolto in Santa Maria di Varano. Da Recanati infatti proveniva la sua nobile famiglia, le cui armi si blasonano in questo modo: spaccato, nel 1° d’argento a tre gigli d’oro posti fra 4 pendenti di un lambello rosso; nel 2° d’argento a 3 bande di rosso con la fascia d’oro attraversante sullo spaccato  (fig.1).

Conosciamo quattro oggetti contrassegnati con questo stemma, piuttosto diversi fra loro. In essi il rosso è reso col bruno di manganese o con il giallo-arancio di ferro e antimonio. Si tratta innanzitutto di una brocchetta nella collezione Cora del museo delle ceramiche di Faenza [1] (fig.2,2a), che si distingue per la forma insolita: ha il bordo traforato a triangoli, il becco a doccia sormontato da una ranocchia, un manico a forma di cane appoggiato al bordo e altri due manici contrapposti ad angolo retto rispetto al beccuccio.  Questa posizione suggerisce un duplice scopo, versare e  bere direttamente, anche se il traforo creerebbe qualche difficoltà. Sembra quindi piuttosto un gioco da tavola, probabilmente un bevi-se-puoi, che sfida l’utente a bere bagnandosi il meno possibile. L’ornato è costituito da ramoscelli che terminano in grandi frutti ovali, e inquadrano lo stemma del vescovo, posto sotto il beccuccio.

Sempre nella collezione Cora dello stesso museo vi è poi  una coppa compendiaria a traforo, nella quale lo stemma è collocato al centro [2] (fig.3). In questo caso la presenza dello stemma conferma, se mai ce ne fosse bisogno, l’attribuzione del piatto a Castelli, e non alla Puglia, come in passato è più volte avvenuto. Nella coppa i punti di congiunzione dei trafori e il bordo sono sottolineati da rosette, mentre i colori sono quelli tipici dello stile, con giallo e bruno predominante. 

La ricchezza del traforo e la cura dell’esecuzione testimoniano ancora una volta come il compendiario castellano sia di altissima qualità, ed abbia ben poco da invidiare a quello di altri centri più noti. Tuttavia, verso la metà del Seicento, questo stile viene gradualmente abbandonato, e i vasai di Castelli  riscoprono l’Istoriato. Proprio quando, negli altri centri italiani, questo difficile tipo di decorazione sta praticamente esaurendosi, a Castelli viene invece riproposto con grande successo e originalità. Protagonista di questa nuova fase è Francesco Angelo Grue (1618-1673), cui viene dato il merito del cambiamento. Come già i vasai rinascimentali egli si serve di stampe, che gli mettono a  disposizione un vastissimo repertorio di storie. I colori tuttavia non hanno la brillantezza decisa dell’istoriato rinascimentale, e si basano su toni più tenui, con prevalenza di bruno, giallo e  blu. La lezione del Compendiario, con i suoi toni smorzati, è difficile da dimenticare, e ha condizionato il gusto cromatico degli artefici e della committenza. Non dimentichiamo che l’istoriato castellano anziché precedere il Compendiario, come avviene negli altri centri italiani, lo segue.

Due piatti con lo stemma Massucci sono bellissimi esempi di questa nuova versione dell’ istoriato. Uno reca un episodio di storia romana (Scipione fa decapitare alcuni prigionieri di guerra) (fig.4), l’altro si trova in collezione privata (fig.5), e vi è raffigurato un Trionfo di Galatea. Entrambi, benché assai diversi, sono riconducibili alla bottega di Francesco Grue. Il piatto con Scipione  è addirittura siglato “FGP” (Francesco Grue pinse)[3]. La scena è tratta  da una stampa di Antonio Tempesta, e gli ornati attorno alla tesa, costituiti da trofei d’arme, sembrano scelti in sintonia con l’atmosfera guerresca dell’episodio centrale.

Il piatto con il Trionfo di Galatea deriva invece da un bulino di Philippe Thomassin, databile circa tra il 1600 e il 1622, su idea di Jacopo Zucchi.  Tutt’attorno si svolge una ghirlanda fiorita. Rispetto al precedente questo piatto presenta tratti più morbidi e delicati, e limita i colori sostanzialmente al blu e al giallo; anzi, l’impressione generale è quasi di una monocromia blu.  Non sembra sia stato eseguito da Francesco, ma da un altro artefice, altrettanto abile nell’istoriato, stilisticamente più pittorico e ancora più legato di lui alla tavolozza compendiaria. Seguendo un’intuizione di Luciana Arbace,  lo abbiamo identificato con Berardino Gentile il vecchio, primo personaggio di spicco della famosa famiglia[4], che pare non avesse una propria bottega. Fu tuttavia attivo in quella del Grue, nell’ultima fase della vita di Francesco. Alla bottega Grue lo riconducono non solo le date del vescovo, periodo nel quale essa predominava nel panorama castellano, ma anche tutta una serie di analogie con i lavori di Francesco, che non avrebbero motivo di essere se Berardino non avesse lavorato a stretto contatto con lui. Per limitarci alle opere qui prese in considerazione, il modo peculiare di tracciare le onde nel piatto con Galatea, simili a squame dal bordo trilobato, si ripete in un piatto della Fondazione Paparella Treccia di Pescara con Nettuno sul cocchio, tratto da un particolare della stessa stampa del Thomassin[5], e senza dubbio dipinto da Francesco. D’altro canto le stesse onde a squame trilobate si ripetono in un  bacile da barba, anch’esso con il trionfo di Galatea dal Thomassin, nella collezione Matricardi di Ascoli Piceno[6], stilisticamente simile al piatto Raffaelli di cui sopra, oltre che recante la stessa scena. Anche il bacile Matricardi non ha la durezza e la spigolosità tipiche dello stile di Francesco, ma è caratterizzato dal segno più morbido e dalla predilezione per la bicromia compendiaria che ci sembrano tipiche dell’opera di Berardino.[7] Il ripetersi della stilizzazione delle onde nelle opere di entrambi gli artefici indica contiguità e collaborazione.

Esuperanzio di Antonio Raffaelli, nato nel 1621, fu vescovo di Penne e Atri dal 21 novembre 1661 al 24 marzo 1668. Successe a Gaspare Borghi, vescovo dal 1657 al 1661. Proveniva da una famiglia marchionale di Cingoli oriunda di Gubbio, e il suo stemma (fig.6) si blasona in questo modo: nel 1°scaccato di rosso e d'argento; nel 2°troncato da uno scaglione d'argento: sopra di azzurro all'aquila di nero accostata da due comete d'argento ondeggianti in palo; sotto d'oro al monogramma RA di nero

Al Raffaelli venne attribuita in passato la committenza di un famoso servizio eseguito nella bottega di Francesco Grue, buona parte del quale è conservata nella collezione Paparella Treccia di Pescara. E’ contrassegnato da uno stemma scaccato di argento e di rosso, al capo dell’Impero, timbrato di un cappello prelatizio nero a 6 fiocchi per parte. Forse a causa dello scaccato presente talvolta anche nello scudo Raffaelli, e della presenza di un’aquila, fu a lungo attribuito al vescovo. Difficile tuttavia sorvolare sull’ assenza delle due comete e del monogramma RA, per non parlare del fatto che il colore comune per il galero vescovile è il verde. A quanto ci risulta, fu lo storico Aleardo Rubini ad avanzare fondati dubbi sull’identificazione dello stemma, che a nostro avviso è quello degli Ottoni di Matelica. Inoltre lo stemma Raffaelli correttamente eseguito non è assente nella maiolica di Castelli, ma compare su almeno cinque piatti, testimoniando l’effettivo interesse del prelato per la maiolica. In questi piatti vi sono le comete e il monogramma RA, e il cappello che sormonta lo scudo è reso con il verde dell’ossido di rame.  

Lo stemma Raffaelli costituisce il motivo centrale di un piatto conservato nel Castello Sforzesco di Milano[8] (fig.7  ), circondato da una fascia con quattro sfingi alate che si dispongono fra rami fioriti. Altri quattro piatti lo recano in alto in mezzo alla tesa, mentre il centro è magnificamente istoriato . L’esemplare della collezione Matricardi di Ascoli Piceno (fig.8) mostra una scena di pesca: in piedi su una barca, un pescatore tiene alto un forcone, pronto a trafiggere il pesce, mentre altri due sono ai remi. Un’altra barca spunta parzialmente a sinistra, e anche qui c’è un pescatore pronto a vibrare il colpo. Sullo sfondo si intravvede una città portuale. La tesa è percorsa da una grottesca di racemi fioriti, entro i quali di dispongono putti e uccelli. La fonte è una delle Venationes di Antonio Tempesta, edite a Roma nel 1602.  Le stampe del Tempesta sono una delle fonti grafiche preferite da Francesco Grue, nella cui bottega fu sicuramente eseguito il piatto. 

Anche nella collezione Giacomini, attualmente in deposito presso il museo della ceramiche di Castelli, figura un piatto  molto simile nella decorazione di contorno (fig.9).  Al centro vi è però una scena biblica, quella degli ebrei che riedificano la città di Gerusalemme: si possono vedere due carpentieri e un architetto, intento a prendere le misure. Anche questa scena  trae l’iconografia da una stampa del Tempesta.

Del quarto esemplare a nostra conoscenza ignoriamo l’attuale collocazione.  Fu posto in vendita presso Sotheby’s di Londra il due novembre del 2005[9] (fig.10), e vi è raffigurata l’allegoria del mese di maggio, da una stampa di Adrian Collaert su disegno di Joos de Momper, sullo sfondo di un magnifico giardino all’italiana è in atto una caccia col falcone, mentre altre persone conversano fra loro. E’ questo il più rigido dei piatti Raffaelli, eseguito da un decoratore apparentemente meno abile, mentre ritroviamo una mano  più raffinata nel quinto piatto (fig.11), anch’esso in collezione privata, su cui è rappresentata una “caccia al cinghiale con trabocchetti”, come recita la didascalia della stampa dello Stradano da cui deriva [10]

E’ probabile che, in futuro, altri esemplari  con gli stemmi Massucci e Raffaelli emergano dall’immensa quantità di maioliche  presenti nelle collezioni pubbliche e private.  Il corretto riconoscimento di tali stemmi è importante sotto vari aspetti, non solo per completare l’identità del pezzo, ma anche per confermare l’attribuzione, soprattutto se si tratta di stemmi locali. Castelli infatti non esportava solo verso i mercati esterni ma copriva anche il fabbisogno della committenza nelle località vicine, fra cui Penne e Atri.  Inoltre Il riconoscimento dello stemma Raffaelli nelle maioliche da lui effettivamente commissionate consente di mettere fine a un  errore storico, quello di vincolare al vescovo Esuperanzio il famoso e splendido servizio contrassegnato dallo stemma scaccato di argento e di rosso, al capo dell’impero, fra le migliori realizzazioni della bottega di Francesco Grue.



[1] G. C. Bojani- C. Ravanelli Guidotti- A. Fanfani 1985 n. 21.  Un esemplare simile, meno ricco di applicazioni plastiche, si trova nella Donazione Varo del Museo Casa Giorgione di Castelfranco Veneto (N.Stringa 2016, copertina)

[2] G. C. Bojani- C. Ravanelli Guidotti- A. Fanfani 1985, n.366.  La coppa, qui erroneamente attribuita alla Puglia, misura cm. 29,5 di diametro ed è alta cm 7.

[3] Luciana Arbace  2000,  fig.100 p. 118.  Qui si dice che la collocazione del piatto è presso la collezione TERCAS di Teramo, e che l’individuazione dello stemma si deve a Franco Battistella.  Nel volume il piatto è  stampato a rovescio.  Per una foto corretta, v. L. Moccia 1960, tav. XXIVb.  Ai tempi in cui il Moccia scriveva,  il piatto era di proprietà di Tommaso Marini di Ascoli Piceno.

[4] Per un approfondimento, v. C. Fiocco- G.Gherardi- G. Matricardi 2012, pp. 122-123.

[5] L. Arbace  2000,  cat.n.25, p.205.

[6] C. Fiocco- G.Gherardi-G. Matricardi 2012, n.83 p. 128.

[7] Per la presenza di Berardino il vecchio presso Francesco Grue v. C. Fiocco- G.Gherardi-G. Matricardi 2012, pp.122-123.

[8] L. Arbace 2000 b 

[9] Lotto 10

[10] M. Tamassia 2013,  n.23 p.15


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